Senso/74

Il terrorismo e il rischio di “co-radicalizzazione”

In molti casi i terroristi non sono personalità sadiche o psicopatiche come vorremmo pensare, ma sono persone ordinarie che vengono condizionate da dinamiche di gruppo, anche via web, nel commettere atti di violenza efferata per una loro “giusta causa”.

In questo tranquillo fazzoletto di terra che è il Molise, la nostra vita, dopo l’11 settembre 2001, non è cambiata molto; è cambiata certamente la consapevolezza che il terrorismo è diventato una minaccia incombente per tutti ma questo non ha, apparentemente, turbato la serenità delle nostre comunità. Eppure, negli ultimi anni le angosce planetarie connesse a questo fenomeno hanno raggiunto l’apice storico. Gli attentati recenti in Francia, in Belgio, in Inghilterra e, da ultimo, in Nuova Zelanda, hanno fatto ripiombare l’umanità in un’atmosfera di insicurezza, precarietà e terrore.

Noi, qui in Molise, guardiamo le notizie alla Tv, le leggiamo sui giornali come se quelle tragedie riguardassero un’umanità che non siamo noi. Non abbiamo ancora imparato a trattarla questa tematica con i nostri bambini che, a tavola, ci chiedono del perché quell’uomo ha sparato a tutte quelle persone che pregavano: è difficile concepire tanta gratuita violenza, non abbiamo le categorie mentali, non abbiamo contenitori e rappresentazioni da poter utilizzare per dare risposte congrue alle loro domande che però stanno diventando ricorrenti nei discorsi che fanno, costringendoci a confrontarci con l’Ombra collettiva di una umanità incredibilmente “normale”: ci sembrano volti di persone normali, quelli delle foto in TV, come potrebbero essere quelli di un nostro vicino di casa, un parente, un compagno. Perché oggi il terrorista può avere la pelle nera ma anche bianca e i capelli castani e gli occhi chiari, lo sguardo rassicurante, un lavoro tranquillo. Difficile credere: la notizia di cronaca sembra il trailer di un film che probabilmente, senza i bambini in stanza, avremmo anche guardato volentieri per esorcizzare le nostre paure più recondite, per identificarci con un eroe positivo, come nei giochi che facevamo da bambini, nella dimensione creativa delle fantasie.

nicola malorni

Se vi dico che in Francia, in uno dei Paesi europei a noi più vicini, l’antropologa Dounia Bouzar è impegnata in un lavoro di “decondizionamento” delle menti dei giovani reclutati tra le fila degli aspiranti terroristi e sta tentando di sensibilizzare i genitori francesi verso la minaccia che incombe attraverso la Rete sui loro figli e sulle loro famiglie, sulle piattaforme utilizzate per il reclutamento delle nuove leve al servizio della Jihad contro l’Occidente, cosa pensereste? Ad un film d’azione? Probabilmente molti crederanno a questa notizia perché sul piano cognitivo è congrua con i dati che negli ultimi decenni hanno mutato le nostre rappresentazioni del mondo. Tuttavia, molti riconosceranno di aver percepito una strana “distanza”: può essere ma qui non può succedere.

 

Eppure il terrorismo oggi si è evoluto anche nelle strategie di diffusione dei contenuti che, attraverso il web, acquisiscono caratteristiche virali. I social che tutti frequentiamo come Facebook, Youtube, Twitter sono ormai parte integrante di un processo di “empowerment” del terrorismo (accostamento faticoso quello di empowerment a terrorismo, ma utile in questo contesto) che riesce abilmente a penetrare, senza esser visto, anche nelle camerette dei nostri adolescenti.

Oggi, anche i nostri confini regionali non sono più sicuri e dobbiamo sapere che in molti casi i terroristi non sono personalità sadiche o psicopatiche come vorremmo pensare, ma sono persone ordinarie che vengono condizionate da dinamiche di gruppo, anche via web, nel commettere atti di violenza efferata per una loro “giusta causa”.

 

Il cinema americano ci ha fatto sempre pensare, fino a qualche decennio fa, che soltanto i sadici o gli psicopatici avrebbero potuto indossare un giubbotto imbottito di esplosivo o imbracciare un fucile e fare fuoco contro la gente. Eppure, la psicologia sociale, sin dagli anni ’60 –‘70 ha rivelato, grazie ad alcune ricerche sperimentali, che anche individui sani, senza nessuna forma di psicopatologia, sono in grado di recare sofferenza ad altri simili senza provare sensi di colpa, anche in presenza di danni gravi.

Ricercatori di fama internazionale quali Millgram (1978) e Zimbardo (1972) hanno dimostrato come  gli esseri umani possono risultare, in alcune dinamiche di gruppo (non psicopatologiche), capaci di infliggere sofferenza ad altri esseri umani se questo è semplicemente richiesto da persone dotate di autorità (ad esempio ricercatori in camice bianco nell’esperimento di Millgram), o è congruo con il gioco di ruolo assegnato (come nell’esperimento di Zimbardo in cui veniva assegnato il ruolo di guardie carcerarie e di prigionieri ad un gruppo di studenti tra i quali “le guardie” risultarono in grado di infliggere qualsiasi forma di umiliazione e commettere ogni genere di abuso sui “prigionieri”).

 

Oggi dobbiamo sapere, sulla base di queste ricerche, dei dati osservativi sul terrorismo e sul potere di condizionamento che ha l’estremismo anche sulle menti dei nostri ragazzi europei, che ciò che può trasformare un essere umano in un terrorista non è qualche difetto della personalità ma piuttosto il funzionamento di un gruppo di appartenenza.

Verifichiamo questo anche nelle più semplici dinamiche che riguardano il bullismo: ciò che rende un ragazzino “bullo” non sono soltanto sue caratteristiche di personalità ma influisce potentemente la dinamica di gruppo in atto, molto spesso correlata con il conformismo, ovvero l’obbedienza ad una “cultura locale” o di gruppo. E a rendere “attraente” la “cultura locale” di un gruppo è soprattutto la percezione di ostilità, pericolosità che ne deriva. Lo osserviamo anche nelle comunità mafiose: i clan locali hanno capito che se riescono a farsi guardare dai “non affiliati” con timore e ostilità, allora molti tra coloro che avevano tenuto una distanza di sicurezza, potrebbero sentirsi ignorati e rispondere positivamente alle proposte di “affiliazione”.

Così funzionano anche le dinamiche di sottomessa accondiscendenza da parte di comuni cittadini ai “poteri istituiti”: se il datore di lavoro, il leader politico, in altri termini il “capo” di un gruppo riesce ad infondere insicurezza e timore nei gruppi, molto probabilmente il gruppo che si sentirà ignorato e trascurato dal “capo” o dai “capi”, aderirà a qualsiasi richiesta di adesione a comportamenti, ritenuti fino a qualche tempo prima disdicevoli, non etici. Inoltre, quante più persone aderiranno a quel gruppo, tanto maggiore sarà il condizionamento su altre persone che saranno pronte a sostenere una leadership disposta al conflitto.

Ma questo accade soprattutto se qualcuno individua una presunta “giusta causa”: infatti, non è soltanto la spinta a conformarsi che determina il punto fin cui si è disposti a spingersi. Anche l’osservazione di fenomeni “normali” delle nostre piccole comunità, a questo punto, contribuirà a convincerci che nessuno può stare tranquillo, perchè la maggior parte degli esseri umani potrebbe abusare degli altri, se questo comportamento è corrispondente alla percezione di una “giusta causa”. In altri termini, più riteniamo giusta la causa, più giustifichiamo i nostri atti come sgradevoli ma necessari. È attraverso la cultura di una “giusta causa” che i leader riescono a costruire un senso di identità per un gruppo che potrà essere impiegata, anche a distanza e senza un coinvolgimento diretto leader-seguace, per mobilitare le persone a fini distruttivi.

 

Inoltre, è importante considerare anche il potere di “rinforzo” dell’identità del gruppo esercitato dal comportamento degli oppositori: alcuni studi hanno dimostrato che gli esseri umani sono più bendisposti a supportare un leader bellicoso se il loro gruppo di appartenenza si trova in contrasto con un altro gruppo che ha una attitudine bellicosa. Lo studioso delle religioni Douglas Pratt dell’Università di Waikato in Nuova Zelanda ha parlato perciò di “co-radicalizzazione”: il terrorismo, in altri termini, cresce se i suoi oppositori estremizzano i propri caratteri violenti. La provocazione viene utilizzata per scatenare reazioni violente degli avversari che a loro volta rinforzano, inconsapevolmente, la coesione di gruppo dei terroristi.  

 

Sono dinamiche universali, ubiquitarie, e riguardano l’essere umano in svariati contesti di convivenza. Occorrerebbe perciò maggiore consapevolezza, maggiore cultura, maggiore informazione sul potere che le dinamiche di gruppo possono esercitare sulla mente dei singoli.

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