Quelli della mazze du castille

Da Perrotta a Di Brino e i suoi boys: la lunga traiettoria del sovranismo municipale

“Prima Termoli”, lo slogan coniato recentemente dall‘ex sindaco Di Brino e i suoi supporters per cogliere gli umori elettorali del momento, ha bisogno del vittimismo per essere giustificato e produrre risultati. Nella storia cittadina non è una novità, ma solo l’ultimo e disinvolto esempio di sfruttare a proprio vantaggio la solidarietà della gente verso i perseguitati e gli oppressi, veri o presunti. Dal poeta Perrotta ai democristiani lapenniani, per dire i maggiori, un lungo piagnisteo contro i “forestieri” ha accompagnato la voglia di riscatto degli autoctoni. Il copyright dello slogan neosovranista appartiene però all’americano-sangiacomese Guido Mancini.

Dal brainstorming (tempesta cerebrale) di quell’affezionato duo raccolto attorno all’ex sindaco Di Brino, nei giorni scorsi è partito un potente grido di riscatto: “Prima Termoli”. L’obiettivo è «sponsorizzare e valorizzare le nostre risorse, perché ci sono e perché madri e padri di famiglia non assistano ad una migrazione dei propri figli diplomati, laureati o disoccupati», mentre a fare man bassa di tutto sono coloro che «non vivono la città».

Approda così anche qui il sovranismo, quello della Mazze du castille. Per intenderci, una “dottrina” che non vuole identificarsi con altre oggi di moda, meno che mai con quelle di stampo leghistasalviniano, ma orgogliosamente casereccia. Insomma, viva Tornola e viva San Basso.

Resta da chiarire un dettaglio: chi sarebbero quelli che «non vivono la città»? Chi non risiede a Termoli, oppure chi non vi è nato? Vallo a spiegare. Molto più esaustivi e convincenti sarebbero stati i proponenti se avessero fatto nomi e cognomi di chi ha “usurpato” i diritti degli autoctoni e, soprattutto, nel caso di Di Brino, i coerenti esempi praticati durante la sua amministrazione.

Di simili lamentazioni però è piena la storia della città. Il poeta dialettale Giuseppe Perrotta parecchi decenni fa vi ha addirittura dedicato il noto sonetto Ce stanne cirte (Vi sono taluni), che si conclude così: “…E quescì se ci’arrive nu frastire/che fusse püre nu sanapercille,/je danne u pòste, u dòn, a móje, i lire./E a u pajesäne, dótte, óme dabbéne,/nen c’è Criste ca je caccene u cappille,/nen ce stä nu cäne ca je dice bbéne”. Traduzione: “…E così se qui arriva un forestiero,/fosse pure un castrino,/gli offrono il posto, il Don, una moglie e i soldi./Mentre al paesano, dotto, uomo dabbene,/non c’è un Cristo che si levi il cappello,/non c’è neppure un cane che gli dica bene”.

Per la serie “Piangi e fotti”, ai tempi del sindaco Dc Lapenna era tutto un piagnisteo contro i democristiani dorotei che spadroneggiavano nel resto del Molise, lasciando a bocca asciutta Termoli. Qui, però, nella patria del nepotismo e della raccomandazione erano sì “favoriti” i termolesi, ma anche tanti, ma proprio tanti non nativi o residenti, purché fedeli al “ras” politico del posto. Quelle infornate nei posti pubblici cittadini se le ricordano oggi ancora in molti.

Ma torniamo al grido “Prima Termoli”. Qualcuno, magari non a conoscenza, potrà pensare a un’intuizione inedita, tanto semplice, quanto intelligente ed efficace. Non è così. Roba vecchia anche quella.

Il primo a elevare un grido del genere è stato un indimenticabile personaggio delle estati termolesi e sangiacomesi degli anni Settanta: Guido Mancini. Un ingegnere aeronautico, figlio di una sangiacomese emigrata negli Stati Uniti. Nelle sue preferenze San Giacomo degli Schiavoni precedeva tutti. Famosissimo il suo detto: Belle mónde l’Italie, prime Sangiacume, secónde Tèrmele, tèrze Róme (Bel mondo l’Italia: prima Sangiacomo, seconda Termoli, terza Roma).

Di Brino e i suoi non hanno fatto altro che aggiustare la graduatoria: prima Termoli, poi il Basso Molise e, infine, la Regione. Se resta qualcosa.

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