Senso/54

Deridere l’autismo. Sintomo di una nuova povertà

Perché qualcuno va a scomodare le diagnosi neuropsichiatriche e la sofferenza di migliaia di bambini e genitori, immolando gli ignari personaggi di queste tristi vicende sul palcoscenico dell’autoesaltazione narcisistica?

Può accadere anche che in questo Paese l’Adulto derida gli autistici mentre i più giovani maltrattino ragazzini con disabilità e insegnanti o distruggano opere d’arte, e altri ancora ammazzino le donne che dicevano di amare. Intanto, la questione più urgente sembra essere quello del reddito e del potere di acquisto di un popolo impoverito. Noi, invece, a proposito di “povertà”, lasciamo che a soccorrerci nel naufragio che incombe sulla nostra cultura millenaria sia la sfrontata semplicità del pensiero di Luciano De Crescenzo che ci aiuta ad amplificare il senso di un termine che sembra essere diventato quello più denso nella cultura attuale del nostro Paese: Non ci rendiamo conto che la vera povertà è rappresentata dall’ignoranza, in quanto a stabilire le differenze sociali non sono i soldi, ma la cultura che si ha e quella che non si ha. Eh già! La cultura è sorella della bellezza, destinate entrambe a salvare il mondo. Gli antichi greci, non a caso, le avevano entrambe deificate.

 

Ricorderete sicuramente i fattarielli con cui lo scrittore e regista napoletano è riuscito ad ottenere non solo grossi successi editoriali, ma anche risultati esaltanti dal punto di vista dell’arricchimento culturale di molti di noi.  Non ci ha insegnato abbastanza questo anziano (ormai novantenne) “regista della risata” circa il potere della comicità e dell’umorismo sulla cultura? Non ci ha mostrato la pervasività dell’umorismo attraverso gli aneddoti e le storielle (i fattarielli) che hanno costellato la strada, i vicoli, i cortili condominiali come anche i grandi miti della storia? In un’intervista della scorsa estate, a pochi giorni dal compimento del suo 90°, così si è espresso: “chi ha il senso dell’ironia ha il diritto a uno sconto del 30% sull’età. Potendo io usufruire dello sconto, direi che ho circa 63, al massimo 64 anni, non di più”. Ridere e far ridere fa bene dunque a tutti.

nicola malorni

 

Ma perché qualcuno va a scomodare le diagnosi neuropsichiatriche e la sofferenza di migliaia di bambini e genitori, immolando gli ignari personaggi di queste tristi vicende sul palcoscenico dell’autoesaltazione narcisistica? La maturità del sentimento etico non ci concede simili operazioni maldestre di trasferimento di una categoria come l’autismo dai luoghi della sofferenza ad una “situation comedy”, anche se a tentarla può essere il migliore interprete del genio comico italiano. Si parla di autismo o di Sindrome di Asperger equiparando, confondendo, sovrapponendo condizioni di malattia molto complesse a tratti di personalità, atteggiamenti e stili relazionali di persone che si intende deridere (tra l’altro ignorando che in psichiatria e in psicologia ormai si fa riferimento ad uno “spettro autistico”, data la complessità dei quadri sintomatologici esistenti, e non più all’autismo o alla sindrome di Asperger).

 

Far ridere non è facile, certo, ma dovremmo chiederci, oggi più che mai, se è arte comica ridere del ridicolo o insegnare divertendo o ridere dell’assurdo, o ancora ridere della malattia e della sofferenza con tanta leggerezza. L’umorismo e l’arte comica – ce lo ha insegnato bene De Crescenzo – nasce dal vivere quotidiano, si nutre delle nostre goffe imperfezioni che ci ritornano, attraverso l’eco delle nostre risate, come immagine riflessa dei personaggi più occultati e trascurati del nostro mondo interiore.  Il ridere, quindi, può essere voce del “piccolo popolo dei nostri complessi psichici” – per dirla con Carl Gustav Jung – prestataci dal teatro, dal cinema, dalla pubblicità, dalla televisione e dai miti, anche a sostegno di valide argomentazioni sociali, culturali e politiche. Tutti sappiamo del potere della risata nel suscitare attenzione, curiosità, e persino apprendimento e conoscenza senza che la gente ne risulti tediata, disinformata, confusa o peggio ancora stigmatizzata.

“Castigat ridendo mores”, ovvero correggere i costumi deridendoli – era questa l’esortazione che ci dava il poeta Jean de Santeuil, il quale definiva la satira come un genere di umorismo che, con accorte citazioni, ridicolizza i difetti umani per rimettere in ordine le cose.

 

Volendo così leggere la satira ci si aspetterebbe di ascoltare una lingua tagliente, cauta ma incisiva, sobriamente colta e intelligente, capace di agire sulla gente, divertendola e incitandola ai cambiamenti innovativi o rigorosamente conservatori. È sgradevole, quando non doloroso, osservare o ascoltare, invece, di partecipati show in cui un comico prova ad usare “fattarielli (mi perdoneranno l’improvvido accostamento il grande scrittore e le persone con disturbi dello spettro autistico) come 500.000 diagnosi conclamate in Italia e incidenze annue di circa 15 nuove diagnosi ogni mille nati; esseri umani ignorati molto spesso dalla Politica e abbandonati, insieme ai loro famigliari, al proprio destino. Non possiamo applaudire ad urlatori di piazza che immaginano di poter correggere i costumi di un popolo deridendo i più fragili.

 

Cito in questo articolo De Crescenzo perché ravviso in lui la capacità di tenere insieme il Bambino e il Vecchio, l’euforia e la meraviglia del gioco infantile con la consapevolezza delle contraddizioni della vita come l’amore e l’odio nell’Uomo, la nascita e la perdita, il dolore e la forza; ci ha insegnato attraverso le letture, la televisione e le interviste a distinguere l’umorismo dalla comicità e dalla satira; tre rami nati da uno stesso tronco che – fuor di metafora – ci ha presentato come l’attitudine innata dell’essere umano a divenire via via più consapevole, anche grazie alla forza trainante dell’humor, del “gioco” e dell’affettività.

Chi è in grado di esercitare queste nobili arti del rendere consapevoli, infatti, deve innanzitutto esser in grado di muovere l’Affetto, in un gioco di equilibrismo tra situazioni assurde, bizzarre, fuori del comune e repentini scivolamenti verso il grottesco, il carnevalesco e, talvolta, verso il “non-senso”, inteso come deviazione dagli schemi standard del pensiero logico che crea, perciò, ilarità. Si tratta di arti difficili originanti da una dote che oserei definire naturale, non potendo essere – a mio avviso – né insegnata né appresa. Questo – lo confesso – ha generato in me sempre una certa invidia, ravvisando nell’umorismo un indiscutibile effetto benefico sulla mente.  “Humor”, tuttavia, – qualcuno dovrebbe impararlo – per i Latini significava “umidità”, “liquido” e, in quanto tale, i nostri progenitori avevano appreso ad usarlo con prudenza, onde evitare rovinosi “scivoloni sul bagnato”.

 

Credo che per un comico non ci sia nulla di più umiliante che rendere se stesso – non ridicolo – ma sgradevole o ripugnante; qui deve confrontarsi necessariamente col fallimento della sua arte, rovinosamente messa in discussione da se stessa.

Certo, quel comico potrà anche intercettare nella massa le risate e i plausi di centinaia di essere umani bisognosi di una fragorosa catarsi collettiva, utile ad affrontare il quotidiano nel modo migliore che gli possa esser concesso dalla Provvidenza; rimedi illusori di rinforzo ad un’autostima lacerata dall’ignoranza e dall’impotenza, che andrebbero assunti – evidentemente – a grandi dosi, per curare un’emotività inascoltata e devastata dalla fatica di vivere.

Bergson, il filosofo francese autore del saggio intitolato “Le rire”, Il riso. Saggio sul significato del comico”, sosteneva che “non c’è nulla di comico al di fuori di ciò che è proprio degli umani”.  Ossia sosteneva che l’essere umano abbia la necessità di essere autoironico, non solo per comunicare il proprio disagio interiore inconfessato ma soprattutto per trovare la forza necessaria per sopravvivere.

Ecco quindi che la vera arte comica – secondo il famoso filosofo – si manifesta nell’attitudine ad essere autoironici. E, come psicoterapeuta non posso che essere d’accordo aggiungendo, anzi, che l’autoironia è davvero uno degli indicatori indiscutibili di salute psichica, poiché presuppone una capacità di auto-osservazione, di contatto con il proprio “opposto” e, conseguentemente, di una sua benevola accoglienza. L’autoironia, però, quando appare, arriva solo dopo un lungo percorso di elaborazione maturativa, e non può essere iniettata né insegnata, né consigliata; ne vanno rispettati pertanto i tempi individuali. Essa arriva come i germogli nuovi delle piante a indicare che tutta la Primavera è arrivata.

 

Non cadiamo, però, nell’ingenua conclusione che i dibattiti scatenati di recente in tutta Italia dalle uscite di un comico, ci dicono che siamo davvero ormai tanto distanti dall’intelligente umorismo dei grandi della nostra cultura. Abbiamo ancora speranza se riusciamo a preservare una posizione critica e una giusta distanza da certi accadimenti. Per questo parliamone. E facciamolo in casa a tavola, davanti alla Tv, a scuola, ovunque possa essere celebrato, nella quotidianità, l’amore per la cultura e per la sana politica che è anche, fondamentalmente, amore per l’Altro.

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