Senso/39

Psicologia ed arte. Al Castello Svevo il dialogo è avviato

La mostra di arte contemporanea “Segni e colori” degli artisti Valeria Vitulli e Nazareno Rocchetti è stata anche occasione di confronto sul tema della bellezza, in cui hanno dialogato psicologi, sculturi, pittori e poeti...

La mia partecipazione alla mostra bi-personale di arte contemporanea “Segni e colori” di Valeria Vitulli e Nazareno Rocchetti, che in questi giorni si sta tenendo al Castello Svevo di Termoli, è stata occasione, nel tardo pomeriggio di venerdì 6 luglio, di un confronto interdisciplinare sul tema della bellezza che ha visto dialogare psicologi, educatori, studiosi di epigenetica, scultori, pittori e poeti.

Occasione importante per la psicologia, sempre più orientata negli ultimi decenni a declinare gli atti tipici della professione in ambiti di intervento diversificati che spaziano dalla formazione dei giovani alla promozione di condizioni di vita e comportamenti utili alla promozione di benessere.

 

Una psicologia che si rinnova continuamente, quella presentata tra le opere esposte nelle stanze del Castello Svevo dei due importanti artisti contemporanei, e che guarda con curiosità alla poesia, alla scultura e alla pittura fino alle misteriose relazioni tra genetica, ambiente e psiche. Il risultato? Un sentimento pervasivo di stupore.

 

È noto a noi psicologi che una caratteristica dell’essere umano è proprio la necessità di portare a livello di immagine le proprie emozioni per poterle affrontare. Le pitture rupestri del Paleolitico scoperte sulle pareti e i soffitti di grotte come quelle di Lascaux  o dell’area di Lussac-les-Châteaux (Francia), Altamira (Spagna), Isola di Levanzo (Sicilia), Bellegra (Lazio), ci parlano di un uomo che ha sempre risposto, dalla notte dei tempi, ad un principio di visibilità del mondo psichico da cui non solo è scaturita l’arte di tutti i tempi, ma l’evoluzione della specie umana ha derivato i tratti più salienti. Non è un caso, infatti, se nella mappatura della corteccia cerebrale umana proprio l’area dei neuroni che regolano le attività sensoriali e motorie delle mani è risultata, insieme a quella del volto, tra le più estese. Diversamente dall’animale, l’Uomo infatti ha dovuto agire e cambiare il mondo per assicurarsi la sopravvivenza: l’uso delle mani ha risposto ad una costitutiva vulnerabilità istintiva e attraverso il possesso di oggetti e le funzioni che l’Uomo ha saputo assegnare ai propri gesti manuali è riuscito gradualmente a governare le forze della natura (sia esterne sia interne) che lo avrebbero sopraffatto.

 

Lo stesso principio di visibilità ancora oggi regala all’Uomo contemporaneo “visioni” del mondo interiore attraverso i sogni, considerati dalla psicoanalisi vie regie per l’inconscio, alle quali si sono aggiunte negli ultimi decenni, per gli analisti junghiani che come me utilizzano in analisi il Gioco della sabbia, le immagini spontanee prodotte nel corso della seduta analitica mediante l’utilizzo nel gioco di materiale presente nella stanza d’analisi.

 

E ci sono poi artisti come Valeria e Nazareno, capaci di guardare, senza averlo deciso deliberatamente, ai segni e ai colori dell’arte primitiva e arcaica che permettono ai loro ospiti di scoprire risonanze interne che rimandano ad un “altro da sé” sorprendente, a volte perturbante, che costringono a domandarsi “cosa sto sentendo?”, “cosa mi turba?”, “cosa mi rende felice?”, “perché desidero guardare e riguardare questa immagine?”.

Domande che invitano a seguire una via nuova, inaspettata, lungo la quale volti e voci inedite si alternano dentro di sé, evocati dall’essenzialità delle forme semplici e sintetiche delle sculture di Valeria, o dai colori che senza una forma definita che li contenga sembrano esplodere (o implodere) con un dinamismo dirompente che ricorda intimamente l’irruzione, a volte angosciosa, dell’affetto o dell’emozione nella nostra vita.

È il rifiuto di questi due artisti di qualsiasi subordinazione al fascino seduttivo della riproduzione naturalistica dell’oggetto a rendere possibile il nostro volgere lo sguardo ad un “altrove” che può portarci al confronto con la nostra natura più intima, quella non ancora conosciuta, forse soltanto – per dirla con Carl Gustav Jung – “oscuramente intuita”.

 

È impossibile trovare un titolo sui quadri di Nazareno Rocchetti perché a questo artista è il fuoco a suggerire cosa deve fare, è questo elemento naturale a ricordargli che i suoi gesti, i movimenti del suo corpo, la forza che immette nel movimento che porterà il colore ad espandersi sulla tavola di legno sono regolati dall’emozione, dal vissuto di quel momento, unico e irripetibile, ancora indecifrabile e che, probabilmente, non potrà mai essere del tutto compreso. Perciò, quale nome potrebbe essere adatto per un’immagine che dal momento della sua prima apparizione sulla tavola continua a generare domande? Guardi un angolo e vi scorgi una forma, ma allo stesso tempo non vedi l’altro, quello che ti sorprenderà magari il giorno successivo perché, intanto, il tuo umore sarà cambiato e –  afferma Nazareno – “il fuoco è lui a decidere cosa puoi fare e cosa non puoi fare”.

 

È in questa affermazione che si attesta la limitazione che la “figurazione” del mondo interiore impone all’Io cosciente: è un processo trasformativo inarrestabile, dove l’esterno (il fuoco) si fonde con l’interno (l’emozione), quello che ci viene indicato da questo tipo di arte; il mondo naturale, quello riproducibile e decodificabile, è vagamente evocato come nei sogni che con la loro natura polisemica (mai satura di significati) si rivelano in analisi non come “verità” sul proprio mondo interiore o sul proprio passato, ma come domanda o vaga indicazione di un luogo o di un percorso, come paradosso che rimanda alla molteplicità dell’essere o alla complessità della vita, che non può – appunto – essere titolata.

 

Come in analisi, il compito cui mirano gli artisti Vitulli e Rocchetti è provocare la possibilità di una percezione di sensazioni ed emozioni emergenti in cui domini «il lasciare accadere» attraverso il segno primitivo, il colore senza forma, il movimento libero del gesto, l’assenza di titoli o parti del corpo, il recupero di dimensioni elementari della relazione umana col mondo: un abbraccio, il vuoto nella separazione, un ritrovato equilibrio, la sensazione di leggerezza.

 

Vi è in particolare un bronzo esposto nelle sale del Castello che Valeria Vitulli ha chiamato “Frammento di donna” ad esemplificare il dialogo che questa tipologia di opere sembra imporre all’osservatore: ho notato che quel che maggiormente s’impone di quella scultura allo sguardo non è tanto la metà rappresentata di un corpo femminile, bensì lo spazio vuoto della metà che l’artista non ha completato. È un vuoto che racchiude un silenzio enigmatico, che subito può destare una domanda o una fantasia attiva, quasi a incoraggiarci a completare l’opera, a mettere in scena un dialogo interiore in cui altre voci e altri volti cominciano a manifestarsi. È questa l’epifania del senso, un processo trasformativo che l’essere umano, da decine di migliaia di anni, ha mostrato di saper spontaneamente attivare per rendere visibile la propria dimensione emozionale e allo stesso tempo “socializzarla” attraverso la contaminazione dei vissuti emozionali che dall’artista migrano nel corpo e nell’anima dell’osservatore.

 

Paolo Aite, medico, neuropsichiatra, analista junghiano e pittore, ci ha regalato con il suo ultimo volume dedicato alle immagini dipinte nel corso della sua vita una importante testimonianza di ciò che ho tentato di tradurre fin qui: «Il silenzio enigmatico delle immagini contiene un messaggio da decodificare. In momenti particolari lo sguardo interiore dell’immaginazione riesce a raggiungere anche ciò che non possiamo o non vogliamo vedere né pensare». (P. Aite, Risonanze tra pittura e psiche, Icone Edizioni, 2018).

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