Poesia e società

Ali Umeed, il pakistano che faceva il vu cumprà ma era un poeta: “Io, acrobata delle parole”

Intervista ad Ali Umeed, pakistano che vive da oltre 30 anni in Italia. In questi giorni a Guglionesi per partecipare allo spettacolo che lo Sprar locale ha organizzato per la Giornata mondiale del Rifugiato. Per vent’anni ha lavorato come venditore ambulante sulle spiagge del nostro Paese

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Una passeggiata nella Villa comunale di Guglionesi prima di concedere a Primonumero.it l’intervista nella sede della biblioteca del paese, tra i libri, dove Ali pare sentirsi a suo agio. Ali Umeed, nato nel 1961 nel Punjab, regione pakistana al confine con l’India, è partito da solo alla volta dell’Italia nel 1986, lasciando la sua terra e la sua famiglia.
Per venti anni in Italia si è guadagnato da vivere facendo il venditore ambulante sulle spiagge, spostandosi di anno in anno, nei mesi estivi, tra Sardegna, Sicilia, Toscana, Veneto, Puglia. La sua base è sempre stata Perugia ed è lì che, con tessere gratuite fornitegli dall’Università per stranieri, ha iniziato a studiare l’italiano fino ad arrivare al 2009, anno in cui la casa editrice Morlacchi ha edito la sua prima raccolta, “Bilancio interiore”, oltre 7.000 copie vendute. Di recente pubblicazione la sua seconda opera, “Candele dei sentimenti”. Ma le sue prime poesie, nella lingua madre urdu, risalgono a quando aveva 15 anni.

Ali, sotto le vesti del ‘vu cumprà’ si celava un poeta. Pochi sono abituati a pensare, quando incontrano un venditore ambulante, che si tratti di un uomo con dei sogni, dei desideri, delle capacità. Immagino avrai dovuto fare i conti con questo?
«Sì, il 99% delle persone mi ha rivolto uno sguardo superficiale, pero c’è stato un 1% che è andato più in profondità. Un giorno stavo vendendo una collanina ad una donna e lei mi ha detto: “Dentro di te c’è un’altra persona, tu non sei un vu cumprà”. Poi nel 1995 in Sardegna ho avuto un colpo di fulmine per una ragazza, allora anche io ero bello ma lei non ne voleva sapere. È stato proprio un amore non corrisposto. Una volta ho scherzato dicendole che con me sarebbe diventata famosa a livello nazionale, ma lei non mi ha creduto. Oggi 10000 persone hanno letto le mie poesie».

Quanto è stata dura vivere sulla tua pelle il pre-giudizio che un po’ tutti hanno verso i venditori ambulanti stranieri?

«È stata molto dura, diverse volte le persone mi hanno deluso. Purtroppo quando una persona vede che sei bisognoso ti sottovaluta. Questo perché il bisognoso è vittima, rischia di accettare 5 euro per un orologio che ne vale 100. Io non odio i poveri, ma odio la povertà perché tante volte ha calpestato la mia dignità».

Hai fatto una scelta di coraggio e controcorrente, quella di scrivere poesie, che già di per sé lo è ma ancor di più per uno straniero in una terra straniera. E lo hai fatto nonostante tutte le difficoltà materiali che dovevi affrontare. Nella tua ‘Una vita scomoda’ parli proprio di questo. Cosa ti ha spinto a fare questa scelta?

«Devo dire che la povertà un aspetto positivo ce l’ha ed è che ti fa capire il vero sapore della vita. Per esempio, un inverno avevo delle scarpe bucate e quando una cara persona mi ha regalato un paio di scarpe invernali per me è stato come vincere un premio. Apprezzi il valore delle piccole cose. Nella poesia che citavi dico che solo un po’ di coraggio mi è rimasto in corpo e con quello devo vivere il mio destino».

Scrivere poesie sembra che per te fosse una necessità, un bisogno vitale, una scelta ineluttabile.

«Sì perché ci sono solo due tipi di mestieri: il primo ha a che fare col dono e il secondo va imparato. La poesia fa parte dei doni di natura con cui ci si nasce, non si impara come un qualunque altro mestiere. E poi per i poeti ci sono due maestri: i sentimenti interiori e le difficoltà quotidiane, e tutti e due mi hanno dato del tu fin da piccolo (ride, ndr)».

Non è stato facile all’inizio, hai dovuto apprendere la lingua italiana, e hai usato l’espressione ‘acrobata delle parole’ per definire la difficoltà di esprimerti in una lingua altra, diversa dalla tua. Quanto è doloroso non avere i vocaboli per esprimersi?

«È molto pesante. Ma anche nella mia lingua madre trovo questa difficoltà. Da noi ancora si usa la rima baciata e non è sempre facile trovare la parola per fare la rima esatta».

Poi però l’italiano lo hai imparato bene. Qualcuno ha detto “Non si abita un paese, si abita una lingua”. Come ti trovi ad ‘abitare’ la lingua italiana?

«Bene, ora riesco a esprimermi con l’italiano. Adesso l’italiano è molto gentile con me (sorride, ndr)».

Mi pare di capire che il nostro idioma ti piaccia molto, più di altri? È bella la definizione che si trova in una tua poesia “La lingua italiana è come il mare, ti allontani dalla riva e diventa profonda e alta”.

«Sì, dopo la mia lingua madre viene l’italiano che per me è una seconda lingua. Mi piacciono i suoni, le metafore e la ricchezza di vocaboli ed espressioni. Ad esempio l’espressione ‘da morire’ non esiste in un’altra lingua. L’ho usata in una poesia ma non riesco a tradurla in altre lingue. Però io non ho mai usato il dizionario che per me è la tomba delle parole. Sono belle le parole che impari soffrendo, andando, vivendo…»

Dicevamo della necessità di tradurre le proprie emozioni in versi. Mi hai fatto pensare a una frase di un libro di Carlo Levi che dice “Le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre”. Le tue parole a volte sembrano macigni. Dentro vi è tutto il tuo dolore, la lacerazione per il distacco dalla tua terra, l’amarezza… È doloroso mettersi così a nudo o è più un sollievo, una liberazione?

«Con le mie poesie la mia vita diventa un libro aperto, sì. Ma io non voglio nascondere nulla. La parola ‘Io’ e l’aggettivo ‘Personale’ mi danno molto fastidio perché io equivale a egoismo, chiusura. Bisogna essere per tutti, perché ognuno di noi è un microcosmo legato agli altri».

Nessun uomo è un’isola…

«Esatto. Nessuno essere umano è autonomo, lo è solo Dio. Se io morissi non sarei il solo, diverse persone morirebbero insieme a me. Per gli italiani morirebbe un poeta, per i pakistani morirebbe un poeta, un fratello, un figlio, un padre, a seconda del legame e del rapporto. I miei sentimenti voglio trasmetterli, attraverso l’’abito’ della poesia, ad altre persone. Non c’è egoismo in questo, anche se a volte lo faccio per vendetta».

Vendetta, in che senso?

«Se una persona mi fa soffrire io non posso dirle né farle niente ma posso scrivere una poesia. Per me è una rivincita, uno schiaffo morale».

Le tue poesie fanno molto male, sono dolorose. Ma non vi si scorge né rabbia né vittimismo. Penso alla poesia ‘Alberi’ in cui tu inviti le persone ad essere altruisti come alberi, che soffrono sotto il sole ma fanno ombra sugli altri.

«Non ce l’ho con le persone, non sono arrabbiato con nessuno. E se non apprezzano le mie poesie non gliene faccio una colpa. Oppure, nel caso di amore non corrisposto, se lei non mi ama non è colpa sua e lo accetto, anche se fa male. Vado avanti. Perché so che amare un’altra persona, dare amore, è la cosa più difficile che ci sia. Quindi è inutile arrabbiarsi o lamentarsi. E poi per tutti i dolori la miglior cura è il tempo. E anche la pazienza, che è sì una cura amarissima e che ti fa male ma ti guarisce».

Per un poeta quanto sono importanti le persone, gli incontri, i rapporti umani?

«Sono molto importanti. Il poeta è occhi sociali, l’importante è che non li abbia sporchi. E tutti i miei lettori diventano per me come familiari».

Qual è il valore della poesia per Ali, che ruolo svolge?

«La poesia può essere anche una cura. Molti psicologi usano la poesia per i propri pazienti».

Cura per chi legge ma anche per chi scrive. Cosa diresti a quelle persone che rinunciano alla poesia o alla letteratura perché pensano siano cose avulse dalla realtà, poco concrete, oziose e inutili?

«In Punjab ci sono circa 50 milioni di persone, di queste al massimo 100.000 apprezzano la mia arte. In Italia, su 60 milioni di persone, se anche solo un milione mi apprezzasse io sarei ricchissimo».

La poesia è per pochi?

«Sì, è una cosa molto speciale. Come tutte le cose belle però non va messa sulla bilancia dei soldi. In questa società triste tutto è in vendita: bellezza, amore, sentimenti, religione. Nei Paesi islamici ci sono persone disposte a farsi saltare in aria in attentati con la promessa che, col sacrificio della loro vita, la loro famiglia verrà ricompensata con soldi. Ma l’Islam non è questo, l’Islam è fratellanza, amore… I soldi sono importanti perché quando li hai anche altrove sei come in patria, quando non li hai anche nella tua patria sei straniero».

È difficile vivere di arte?

«Non è facile. Però io sono soddisfatto perché riesco a mantenere me e la mia famiglia in Pakistan con la mia arte. Ma quando mi chiedono ‘Quanto costa questo libro?’ io non ho risposta. Io sto dando un’arte che non ha prezzo. A Palermo una notte alle 3 ho scritto questa poesia “Un giorno scherzando mi disse ti amo, questa bugia mi è piaciuta da morire”. Per me scrivere questa sola poesia è stato come aver scritto sette libri».

Vivi da oltre 30 anni in Italia, dove hai girato tanto. Come interpreti gli atteggiamenti degli italiani verso gli immigrati?

«Non vedo molte differenze tra il Nord e il Sud. Anche se devo dire che al Sud c’è tanto calore ma allo stesso tempo molta diffidenza e falsità. A Perugia, la città che conosco meglio, non è così. Ma Perugia è abituata alla presenza di immigrati da molti anni, c’è l’Università per stranieri… Lì non c’è tutta questa diffidenza. A volte capisco gli italiani, hanno ragione perché se hai una stanza per due persone, come puoi farne venire dieci?»

È solo un discorso economico?

«No. Da noi c’è un detto che dice “Se vuoi vivere a Roma devi imparare le usanze romane”. Alcuni immigrati, perché magari poco istruiti, hanno difficoltà a farlo».

Lunedi 2 luglio sarai a teatro a Guglionesi e condividerai il palco con richiedenti asilo e rifugiati. Lo spettacolo si chiama ‘Voci alt(r)e’: l’intento è quello di dare voce a chi spesso non si vede riconosciuto il diritto a farsi ascoltare, e a mostrarsi per quello che è, che spesso non coincide con l’immagine stereotipata che gli viene attribuita.

«Sì, è così. Il mio desiderio è che tutti i miei fratelli immigrati abbiano un tetto, del cibo e un lavoro dignitoso. Senza essere di peso per nessuno. Nella poesia ‘In un’altra terra’ ho scritto: “I miei sentimenti sono stati usurpati nella mia patria, lo stesso dolore sto provando in un’altra terra”. Mi auguro che tutti i miei fratelli immigrati non vedano né usurpazione né pregiudizi. Nessuno ha potuto decidere, nessuno ha prenotato di nascere in Africa, in India, in Molise o altrove, fa parte della nostra sorte, del nostro destino».

Buona vita Ali.

«Buona vita anche a te».

Per contattare Ali Umeed: umeedpoeta@libero.it

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