40 anni dopo

Giulio Rivera, agente ucciso a 24 anni per difendere Moro: “È stato l’11 settembre italiano” fotogallery

Ricordare com’era lui, tener viva la memoria di quel ragazzo allegro, che scherzava sempre e giocava col figlio piccolo del Presidente della Dc. Con questo animo i familiari del guglionesano Giulio Rivera, poliziotto della scorta di Aldo Moro, si accingono a celebrare i 40 anni della strage di via Fani, agguato con cui le Brigate Rosse trucidarono cinque fra carabinieri e agenti di polizia che seguivano passo passo l’onorevole, poi ucciso il 9 maggio del 1978, dopo 55 giorni di sequestro. «Era un tipo allegro e scherzoso con tutti» racconta il fratello Angelo. «Non avevamo paura che gli succedesse qualcosa». In paese molti ricordano quei funerali «a cui assistette il Molise intero». Riguardo ai brigatisti poca voglia di commentare il fatto che molti di loro hanno ottenuto la libertà. «Non sta a noi giudicare i processi. Ma una verità storica non c’è».

La foto di Giulio in divisa da poliziotto è sempre lì, di fianco al televisore, divide lo spazio sui mobili del soggiorno con le immagini ben più recenti di figli e nipoti del signor Angelo Rivera e di sua moglie Lina Loiacono, a Guglionesi. Appesi alle pareti, i due coniugi hanno quadri e piatti disegnati che riportano il nome di quel ragazzo di quasi 24 anni che il 16 marzo 1978 era fra i cinque uomini della scorta dell’onorevole Aldo Moro. Finirono tutti trucidati dalle Brigate Rosse che rapirono il presidente della Democrazia Cristiana ed ex presidente del Consiglio, il fautore con Enrico Berlinguer del cosiddetto compromesso storico fra la Dc e il Partito Comunista. Dopo 55 giorni di prigionia anche Moro venne ucciso. Sono trascorsi esattamente quarant’anni dall’agguato che probabilmente ha cambiato la storia d’Italia. Il ricordo di Giulio, così come di quel rapimento, è ancora vivo.

Lo è per Angelo, che è l’unico dei tre fratelli di Giulio che ancora sta a Guglionesi. Le altre due sorelle vivono altrove: Carmela a Palata, Maria Paolina a Montreal. Il poliziotto che faceva la scorta a Moro era il più piccolo dei quattro. «Ma la storia della sua morte ormai la conoscono tutti, noi vogliamo ricordarlo da vivo» dicono i familiari. Sul tavolo da cucina l’edizione fresca di stampa del libro “Gli eroi di via Fani – Le vite spezzate degli uomini della scorta di Aldo Moro”. L’autore Filippo Boni ha incontrato nei mesi scorsi le famiglie dei cinque uccisi quel 16 marzo a Roma e ne ha scritto un testo che è una carezza per i parenti di Giulio, così come a quelle di Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Francesco Zizzi e Raffaele Iozzino.

«Il libro ricostruisce le loro vite e non la morte, quella di cui hanno parlato tutti e di cui si è detta qualsiasi cosa. Ci piace per questo». Ma chi era Giulio Rivera? «Un tipo scherzoso, sempre allegro – risponde Angelo, oggi 74 anni -. Quando lavorava con me a Valmadrera (provincia di Lecco, ndr) il capo diceva che non poteva metterlo con nessun altro perché scherzava sempre. Era ben voluto da tutti». Ed è noto che anche con Moro il rapporto fosse buono. «Giocava spesso con il figlio dell’onorevole e ci raccontava che stava bene con lui. Ma non parlava molto del lavoro e anzi, a Guglionesi non si presentava mai in divisa».

Tanto è vero che al paese in pochi sapevano che lavoro facesse e quasi nessuno, prima di quel 16 marzo, era a conoscenza del fatto che da nove mesi era stato scelto per fare da scorta all’allora presidente della Dc. E pensare che finì in polizia per un caso della vita. «Si era iscritto all’Istituto Agrario e ne capiva di coltivazioni, ma non gli piaceva studiare» aggiunge Angelo. Così ancor prima di compiere 20 anni lasciò il Molise per raggiungere proprio il fratello maggiore in Lombardia. «Venne a stare con me e lavoravamo in fabbrica insieme».

Poi Angelò sposò Lina, mentre a Giulio arrivò la chiamata dal militare. «Era da parte della Marina, quindi sarebbe dovuto star via 24 mesi. Così, visto che avevamo uno zio poliziotto, decise di provare a entrare in Polizia. Lo presero subito, forse era il suo destino». Dopo il giuramento, un periodo a Milano. «Da lì mi veniva a trovare a Valmadrera» ricorda Angelo, mentre la moglie tira fuori pacchi di giornali e foto d’epoca. In una di queste, Giulio è ritratto durante il sequestro di una grossa quantità di denaro contante. «Sembra un poliziesco» dicono.

Purtroppo quella che sembra la scena di un film d’azione si rivelerà lo scenario della morte precoce di quel ragazzo, che dopo aver svolto l’addestramento scorte venne mandato a dar manforte alle forze dell’ordine che seguivano Moro. Erano gli anni di piombo e l’Italia si trovava a fare i conti con il terrorismo nero e con quello di sinistra targato Br. «Paura che gli succedesse qualcosa? No, assolutamente non ne avevamo. Lui ci tranquillizzava sempre. Ci diceva: “ma chi ci può toccare?”».

Nessuno potrà mai dire se quelle di Giulio ai familiari erano solo parole di circostanza, per non creare ansia e apprensione, dietro le quali magari qualche sospetto c’era, o se magari davvero non pensava minimamente al grande pericolo cui poteva andare incontro. Sta di fatto che alle 9 del mattino di quel 16 marzo per la famiglia Rivera tutto cambiò per sempre. «Non solo per noi, per l’Italia intera. Quella data è l’11 settembre italiano. Si può chiedere a chiunque all’epoca avesse l’età per ricordare e tutti sanno dire dov’erano e cosa stavano facendo quando appresero la notizia».

Angelo la apprese dai colleghi, anche se all’inizio non era certo che il fratello fosse in servizio quel giorno. C’era ancora la flebile speranza che fosse a riposo e che uno di quei cinque corpi in quelle due auto non fosse il suo. Ma non fu così. «E lì crollò tutto» dice con un filo di voce. L’emozione non si smorza, nemmeno dopo quarant’anni. «Andammo subito a Roma, ci fecero vedere anche il posto dov’era successo. Due giorni dopo si tennero i funerali nella Capitale, ma ricordo così poco, il dolore era troppo forte».

Il 19 marzo invece la salma riportata a Guglionesi per un’ulteriore cerimonia funebre. «C’era tutto il Molise» dice Angelo mostrando le foto che ritraggono una folla immensa mentre percorre la strada dalla casa dei genitori di Giulio alla chiesa madre, i gonfaloni dei paesi, le auto del 113, i manifesti funebri con il nome riportato a caratteri cubitali. Forse la domenica della Palme più cupa che Guglionesi ricordi.

Per la mamma Esperina un dolore troppo grande. «Da quel giorno parlava sempre di Giulio. Ogni discorso finiva col diventare un modo per ricordarlo. E poi si metteva spesso alla finestra a guardare fuori, forse pensando a lui». Oggi i genitori di Giulio non ci sono più, ma i familiari delle cinque vittime non hanno smesso di tenere vivo il ricordo e sono spesso in contatto fra loro, tanto che stanno cercando di rimettere in sesto e conservare a futura memoria l’Alfetta in cui Giulio trovò la morte quel tragico giorno di 40 anni fa.

Oggi 16 marzo saranno a Roma per l’inaugurazione di un nuovo monumento dedicato alle vittime della strage di via Fani. «Era doveroso e non sono perché la lapide è stata imbrattata poche settimane fa». Lunedì 19 invece una cerimonia si terrà in cimitero a Guglionesi, così come accade da diversi anni. «Cerchiamo sempre di coinvolgere le scuole perché è importante conoscere la storia e sapere chi era Giulio». Nella famiglia Rivera c’è chi ha scelto di seguire le orme dello zio. È Ignazio, agente di polizia stradale a Termoli, oggi 42enne. Anche lui, come tanti poliziotti, si è formato alla Scuola Allievi Agenti di Polizia di Campobasso che porta proprio il nome dello zio.

«Un’intitolazione che ci fece davvero tanto piacere. Lo Stato ci ha anche conferito due medaglie d’oro, una al valore civile e l’altra come vittima del terrorismo». Ma è lo stesso Stato che ha scarcerato alcuni dei brigatisti condannati per la strage, ad altri ha concesso l’amnistia, per altri ancora ha previsto la libertà vigilata. In qualche caso i terroristi sono fuggiti all’estero senza fare un solo giorno di carcere e i ben cinque processi non hanno saputo dare una verità storica, tant’è che ancora oggi le ipotesi e le illazioni si sprecano. Ma dalla famiglia Rivera non si sentiranno pronunciare parole come rabbia o ingiustizia. «Una cosa sono i processi, un’altra il nostro pensiero. Non sta a noi giudicare».

Preferiscono condividere quanto affermato tempo fa dal loro legale, l’avvocato Biscotti che difende i familiari delle vittime: «Lo Stato ha pensato più gli autori della strage rispetto a chi ha perso un parente nell’agguato». Nel 2008 la trasmissione di Rai Tre “La storia siamo noi” chiese ad Angelo se poteva pensare di perdonare gli assassini del fratello. Dieci anni dopo la risposta non cambia di molto. «Ci ha pensato lo Stato a perdonarli».

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