Messico-Italia

Cronaca di un primo pomeriggio di giugno, quando tutta la città si sintonizza su Rai Uno per seguire la diretta tv valida per le qualificazioni agli ottavi di finale dei Mondiali di calcio di Corea e Giappone (a Termoli).

Ho visto la gente della città correre in cento direzioni diverse, guardare l’orologio all’unisono come in un film, e disperdersi a gruppetti ognuno verso una destinazione: casa sua.
Ho visto i ragazzi della spiaggia riempire in fretta lo zaino, infilarsi le scarpe da ginnastica alla meno peggio e ancora con i capelli bagnati di mare salire sul motorino e sfrecciare via, liberi di andare in due e senza casco perché i Vigili Urbani non c’erano, per strada, a fare le multe. Ho visto il Corso Nazionale spopolarsi come quando scatta il coprifuoco, e sotto un sole rovente le persone salire sulle auto incandescenti e intasare il centro di clacson, fumi di scarico, traffico. E, per una volta tanto, nessuno si è lamentato dell’inquinamento, e nessuno ha sbuffato. Ho visto i bar aperti riempirsi gradualmente di uomini di tutte le età, e uomini di tutte le età prendere posizione attorno a un tavolino e ordinare birra fresca. Erano seduti a semicerchio, gli occhi incollati alla tv, mentre il barista spillava boccali da 0.4 senza preoccuparsi della schiuma che cadeva sul bancone. Ho visto le casalinghe scappare come ragazzine stringendo le buste della spesa in mano, e dimenticarsi gli occhiali da sole tra gli scaffali del supermercato. Correvano tutte, coi figli piccoli che le trascinavano per mano strillando agitati.
E i telecomandi di una città intera sintonizzarsi contemporaneamente su rai uno.

E poi ho visto, (erano le 13 e 27 minuti) i miei amici che cantavano l’inno d’Italia, in piedi davanti alla televisione e con la mano sul cuore. Anche quelli anarchici, anche quelli che l’Italia non la possono soffrire e sputano veleno ogni giorno sulla politica e sul cattivo governo del paese. Cantavano tutti, e se in quel momento li avesse visti anche Gianfranco Fini avrebbe scusato abbondantemente trenta anni e più di spinelli e discorsi sovversivi, e anche lui ci sarebbe passato sopra con un’alzata di spalle per non perdersi l’inizio della partita.

Ho visto Termoli deserta per due ore a sudare dentro e fuori dagli appartamenti un primo pomeriggio d’estate e di Mondiali di calcio. Ho visto Termoli che sudava freddo nonostante i trenta gradi e passa del 13 giugno 2002.
Ho visto la spiaggia senza bagnanti, tranne qualche turista straniero steso su un telo che ripensava alla partita di ieri, o magari a quella di domani. Ma aveva il walkman e forse ascoltava la partita dell’Italia alla radio.
Ho visto i trabucchi che come al solito emanavano la loro poesia quotidiana, e mi aspettavo di vedere i pesci emergere dall’acqua piatta come una tavola e sventolare anche loro un minuscolo tricolore. Ma visto che non avevo preso lsd, i pesci non li ho visti.

Però ho sentito l’urlo.
Ed era così forte, così assordante e prolungato e intenso e assolutamente eccezionale che sembrava disumano quell’urlo, e sembrava provenisse dai polmoni di Dio.
L’urlo di migliaia di persone che urlavano insieme, nello stesso esatto momento in cui urlava Alessandro Del Piero dall’altra parte del mondo, l’urlo di gioia che liberava quasi due ore di tensioni accumulate, di rabbia, di emozioni, di calci contro il muro, di bicchieri rotti, di graffi sulla faccia.
L’urlo del gol.

E non è finita qui, perché qualche minuto dopo ho visto i ragazzini che canticchiavano stornelli messicani, e gli adulti che ridacchiavano davanti ai calciatori che si passavano la palla da fermi, senza neanche provare a giocare nonostante il tempo di recupero non fosse ancora finito. Ho visto le mamme (quelle poco avvezze al calcio) che guardavano i mariti e i figli un po’ scettiche, chiedendo che cavolo succedeva nel supertecnologico stadio di Oita, in Giappone. E i mariti e i figli che ancora ridacchiavano, in fondo grati ai messicani che di colpo non sembravano per niente avversari, solo compagni di avventura e per giunta simpatici, anche se solo fino a poco tempo prima si erano beccati tutti gli insulti più irraccontabili di una Nazione.
In realtà qualcuno si è arrabbiato, e ha detto che non era per niente dignitoso concludere così una partita dei mondiali di calcio. Ma quando l’arbitro ha guardato l’ora e ha detto stop sono scesi in strada anche loro, a festeggiare.
E alla fine ho visto tante auto, tanti motorini, tante bandiere appese ai balconi a sventolare, e dato che i colori della bandiera messicana sono gli stessi colori della bandiera italiana quella festa era un po’ per tutti e due. E ho pensato che Termoli dovrebbe essere così più spesso, senza nemici ai quali dichiarare guerra, democratica, rispettosa dell’avversario, pronta a riconoscere ragioni e torti come si fa quando finisce una partita di pallone. Ma poi mi sono ricordata che il calcio è solo un gioco e ho lasciato perdere. Però non sarebbe male.

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