Senso/15

“Zombie” e abusi all’infanzia: il ricordo di Dolores O’Riordan

Abbiamo vissuto un po’ tutti nella nostra carne la fascinazione di “Zombie”, il brano tumultuoso di ispirazione grunge più famoso dei Cranberries, cantato da Dolores O’Riordan negli anni ’90; senza dubbio, la più grande voce del rock europeo, spenta improvvisamente a 46 anni, lunedì scorso, mentre si trovava a Londra per una sessione di registrazione. E’ da questa voce inedita, che sembra levarsi da una personalità più profonda e oscura (notiamo un cambiamento di tono emotivo proprio quando la cantante intona la parola “zombie”), che riusciamo a riconoscere in Dolores O’Riordan una eccezionale sensibilità verso la violenza, capace di interpretare lo psichismo inconscio della collettività...

Abbiamo vissuto un po’ tutti nella nostra carne la fascinazione di “Zombie”, il brano tumultuoso di ispirazione grunge più famoso dei Cranberries, cantato da Dolores O’Riordan negli anni ’90; senza dubbio, la più grande voce del rock europeo, spenta improvvisamente a 46 anni, lunedì scorso, mentre si trovava a Londra per una sessione di registrazione.

La sua voce è stata l’ossessione sonora dei giovani europei di quegli anni, pronti a scoccare i dardi della vita come i putti del videoclip del ’94, che ai piedi della dea tinta d’oro, si facevano messaggeri, sotto una croce senza Cristo, di una denuncia collettiva di rifiuto della violenza degli uomini “zombie”: in quegli anni, infatti, imperversava in Inghilterra l’IRA (Irish Repubblican Army), il gruppo terroristico che rivendicava la fine della presenza britannica in Irlanda del Nord, con risonanze emotive che la musica dei Cranberries è riuscita ad amplificare un po’ ovunque nel mondo.
Il brano della O’Riordan era una denuncia contro le parti “zombie” di una psiche collettiva che sembrava non poter apprendere nulla dalla storia e dalle migliaia di vite già spezzate: quelle parti violente che possono rendere l’Uomo un “morto vivente”, incapace cioè di vedere e sentire il dolore struggente nei cuori frantumati delle madri (“Another mother’s breaking
Heart is taking over”),
un’umanità assuefatta anche di fronte alla visione dell’ennesima strage d’innocenti (“And the violence, caused such silence”), essa stessa vittima e allo stesso tempo carnefice in una coazione a ripetere senza fine delle violenze, nonostante le leggi, l’etica, le religioni e le scienze.

Dolores scrisse “Zombie” in meno di 20 minuti – fu lei a rivelarlo in un’intervista – dietro l’onda di una fiumana di emozioni e immagini che avevano sorpreso la stessa autrice, partorite dalla notizia della morte violenta di due bambini, i piccoli Johnathan Ball e Tim Parry, caduti sotto l’attentato dell’IRA a Warrington nel ‘93, in Gran Bretagna.

Accade spesso agli artisti di creare grandi opere sotto l’influenza di stati emozionali come quello descritto dalla cantautrice irlandese. L’evento ebbe per Dolores una risonanza particolare, trasformandosi in una eccezionale occasione di confronto con una voce interiore “Altra”, inedita, insolitamente dura e arrabbiata e in linea con la crudezza del testo e degli eventi contemporanei, molto distante dalla tonalità generalmente dolce e solare della cantante.

E’ da questa voce inedita, che sembra levarsi da una personalità più profonda e oscura (notiamo un cambiamento di tono emotivo proprio quando la cantante intona la parola “zombie”), che riusciamo a riconoscere in Dolores O’Riordan una eccezionale sensibilità verso la violenza, capace di interpretare lo psichismo inconscio della collettività.

Ma da cosa trae origine questa straordinaria inclinazione ad interpretare in modo magistrale il vissuto profondo della comunità di fronte alle vittime degli “uomini zombie”? Come ha fatto Dolores a far risuonare le corde emozionali di ognuno di noi di fronte al tema della violenza?
Leggendo le interviste rilasciate dall’artista, pare sia accaduto grazie ad un processo creativo sviluppatosi in un tempo apparentemente brevissimo ma, probabilmente, lungo quasi quanto una vita intera: la sua.
Entrata a far parte della band nel 1990, dopo svariati successi che caratterizzarono il rock nordeuropeo degli anni ’90, Dolores si separò dai Cranberries nel 2003, senza molto clamore, per tornare insieme dopo 6 anni, il 25 agosto 2009. Negli anni dello scioglimento si sperimentò, tuttavia, in una breve esperienza da solista che, pur riscuotendo un discreto successo in vari Paesi, compresa l’Italia, non riuscì evidentemente a placare il richiamo delle origini, soprattutto quello di “Zombie” e di altri successi degli anni ’90 con la band irlandese.

Lo scioglimento del gruppo ci appare oggi come un presagio di un equilibrio già reso precario da un tumulto interiore che avrebbe rivelato ben altre risonanze, declinandosi nei chiaroscuri di un’esistenza tormentata: fu la stessa Dolores a dichiarare, infatti, all’Irish Newsche la lunga pausa fu determinata da un suo crollo nervoso – Lavoravamo sempre e alla fine ero bruciata” – confessò.
Qualche anno più tardi, nel 2014, sopraggiunse però anche la separazione, dopo venti anni di vita insieme, dal marito, il tour manager dei Duran Duran, Don Burton, col quale ebbe tre figli. Dopo la separazione, le venne diagnosticato un disturbo bipolare in seguito all’arresto per aggressione arrecata il 10 novembre 2014, nell’aeroporto di Shannon, in Irlanda, prima ad una hostess e subito dopo a un poliziotto. A causa della diagnosi e delle cure necessarie, fu ricoverata per 3 settimane in ospedale psichiatrico.

Le rivelazioni pubblicate dal tabloid britannico Daily Mail e dal sito Tmz raccontano di una grave depressione, di problematiche legate all’abuso di alcol, di un disturbo alimentare e di un tentato suicidio nel 2013.
Ma il passato di Dolores O’ Riordan sembra nascondesse ombre ben più oscure. Come riportato nel 2014 da Barry Egan per il Belfast Telegraph, tra gli 8 e i 12 anni di età fu abusata da una persona che godeva della fiducia della sua famiglia. Un segreto custodito a lungo, che le aveva causato depressione, anoressia e ideazioni suicidarie. Quando suo padre morì, nel 2011, Dolores attese con grande angoscia il momento in cui avrebbe rivisto l’abusante, amico di famiglia, al funerale. Quando accadde, l’uomo le si avvicinò chiedendole scusa. Da lì a poco, Dolores ripiombò in una più grave depressione e nell’anoressia. “Odiavo me stessa – raccontò a Egan – e sapevo il perché. E sapevo perché desiderassi tanto sparire“. E aggiunse: “Ho cercato di andare in overdose, l’anno scorso. Se sono ancora qui, suppongo che sia per i miei figli“.
Più di recente, a giugno 2017 i Cranberries avevano annullato il tour europeo: tutti i concerti previsti dal 30 maggio al 30 agosto erano stati cancellati. Stesso destino per altre date successive negli States.

Rileggendo la sua storia fino al triste epilogo, la vita interiore di Dolores ci appare in parte consegnata ad un silenzio assordante contro cui lei stessa aveva tentato di sporgere denuncia con il famoso ritornello di Zombie: What’s in your head, in your head – Zombie, zombie, zombie-ie-ie ie-ie oh”. Ma come spesso accade alle vittime di violenza, anche in questo caso la rivelazione è stata attuata negli anni soltanto a pezzi, con toni acuti e toni bassi, proprio come la voce di Dolores e come il suo unico, inconfondibile modo di cantare.

Raccontò delle violenze subite nell’infanzia per la prima volta al pubblico nel 2013 al talent show The Voice edizione Irlanda, dicendo di aver subìto un abuso sessuale da parte di un uomo, ininterrottamente dagli 8 ai 12 anni. Ero solo una bambina” – rivelò – “e quando hai delle figlie diventa ancora più difficile perché rivivi i flashback quando sei con loro e li guardi. Ti chiedi come sia possibile trarre soddisfazione in qualche modo“.

Le parole di Dolores ci hanno rivelato così, tra le piaghe degli eventi più burrascosi del suo difficile percorso individuativo, le conseguenze post traumatiche di un abuso perpetrato per diversi anni.
Pur apparendo il tema diverso ad una prima analisi, nei versi iniziali di Zombie sembrano trovare un’eco inconfondibile gli abusi che attanagliano molte giovani vite in ogni luogo nel mondo: Another head hangs lowly – Child is slowly taken – And the violence, caused such silence – Who are we mistaken?”che tradotti ci dicono: Un’altra testa pende verso il basso – Un bambino è portato via lentamente – E la violenza, ha causato così tanto silenzio – Ma chi stiamo fraintendendo?”. E poi ancora: “But you see, it’s not me – It’s not my family – In your head, in your head, they are fighting” che in italiano è tradotto: “Ma tu lo vedi che non sono io, non è la mia famiglia – Nella tua testa, nella tua testa stanno combattendo”.

Le vittime di abusi all’infanzia convivono quotidianamente con le mostruosità della violenza, corone di fiori e spine sulla loro testa come quelle mostrate dai putti del videoclip di Zombie: attraverso i flashback degli eventi subiti sono costrette a confrontarsi con la riesumazione dei traumi del passato, delle proprie parti “Zombie”, anch’esse talvolta capaci di destabilizzarle a causa del potere infestante del trauma.
Dolores ci lascia in eredità, con la forza struggente della sua voce e dei suoi versi, questo monito non declinabile in altro modo, se non attraverso un’azione responsabile delle Istituzioni verso la tutela dell’Infanzia: lo ha chiesto all’umanità, mentre sembrava chiederlo al suo stesso abusante, di riconoscere gli Zombie nella testa perché queste, come “parti aliene” dentro ognuno di noi, sono in grado di riesumare l’atavica natura violenta dell’Uomo: “What’s in your head, in your head – Zombie, zombie, zombie-ie-ie, oh” – “Cosa c’è nella vostra testa, nella vostra testa
(siete) zombie, zombie, zombie”. Una ripetizione ossessiva di immagini e di domande che, come tarli nella nostra mente, ci costringono a cercare una risposta. O una preghiera.

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