Cronache

Il poeta-istrione ha abbandonato il palcoscenico (In memoria di Tony Evangelista)

Destino scellerato! Ha deciso di portarlo via così, da una banale corsia d’ospedale, in una fredda e assolata giornata. Una di quelle giornate che lo accoglievano, in genere, seduto sullo scalino della libreria, alla Madonnina, tra i denti un consunto toscano e sulle labbra un sorriso, alternativamente sarcastico, ironico, seduttivo e a volte finanche sardonico.

Stare seduti su di uno scalino antistante una libreria. Anche quella “posa” curiosa era peculiare: era lì, umile, trasandato, la barba incolta, ad attestare semplicità, oppure era in vetrina, davanti alla vetrina, a oscurare con la letteratura/poesia della sua postura i titoli che avrebbero voluto campeggiare sulle mensole per attrarre i lettori?

Non meritava di andarsene così, di abbandonare il palcoscenico in maniera così ordinaria. Lui avrebbe voluto farlo diversamente. Me lo immagino il suo desiderio: un malore improvviso, proprio su quello scalino, con tanta platealità, tanta gente ad accorrere, tutti ad agitarsi, a chiedere cosa fosse successo, chi fosse, se fosse davvero Tony a rantolare esanime sul marciapiedi. Chi chiama l’ambulanza, chi lo adagia sul tavolo, tra i suoi amati/invidiati libri, chi gli sventaglia sul viso un volumetto leggero, come si fosse in una scena del più ovvio teatro partenopeo. E lui indeciso se scegliere di essere terrorizzato dalla vecchia signora con la falce, che vorrebbe portarselo via, o se gioire, gigioneggiando per l’inarrivabile performance che si stava mettendo in scena!

Il più grande scanzonato sfottitore che abbia mai calcato il palcoscenico termolese. Scanzonato e sfottitore, da uomo intelligente qual era, principalmente verso se stesso. L’Istrione, appunto, il grande istrione Tony. Il poeta-istrione. E proprio sul tema del poeta-istrione era avvenuto, di fatto, il nostro vero incontro. Sì, perché di incontri reciprocamente finti, in una altalena di curiosità e indifferenza, di simpatia e di invidia, di pedanteria e di tolleranza, di commiserazione e ammirazione, ne erano avvenuti tanti, in oltre trent’anni.
Ma quello intorno al poeta-istrione fu quello vero, autentico; di quelli che cambiano una reciproca visione e fanno germogliare l’affetto, quello che non ha più bisogno di parole. Lo spazio di quell’incontro durò non più di mezz’ora. Era uno di quei giorni in cui la sua maschera da guitto senza etnia lasciava il posto a quella della tragedia nell’autenticità. Come sempre iniziava il colloquio con un antipatico mantra, una richiesta-fuga: “Vorrei andare a ricoverarmi per un mese a Villa Serena”. In genere, ancor prima che comprendessi, quelle richieste andavano a impattare contro il direttore/manager, posseduto dal demone dell’economia sanitaria.
Quel giorno non mi sfiorò neppure un atteggiamento simile. Tony quel giorno impattò in un momento in cui il tecnico non c’era, era altrove, avvolto nelle proprie brume. Fu così che chiesi, e chiesi e chiesi ancora, per comprendere cosa ci fosse dietro. E allora si aprì per entrambi un mondo. Parlavo a lui di lui o a me di me; o a noi della nostra relazione col mondo? A lui chiedevo e attraverso di lui cercavo di orientarmi a tentoni tra le mie brume.
Ci incontrammo quando gli rappresentai doppie vie, non dicotomiche, ma necessariamente a tratti intersecantesi, a tratti divergenti, a volte parallele. Quanta sofferenza procurano le piéce teatrali? Chi è il vero istrione? Chi è il vero poeta? Allora danzammo con parole, sorrisi, lacrime trattenute, posture da guitti e maschere continuamente sostituibili intorno a questi temi. Ricordo che l’argomentazione che più lo colpì (appunto l’incontro) ruotò attorno a chi fossero dirette le perfomances dell’istrione, del guitto, a quanto restituissero quelle performances, a quanto dolore procurassero all’anima, alle parti autenticamente bambine e sensibili. A quanto una umanità stolida, aggressiva e mediocre potesse solo ridere (e non sorridere con lui) dell’istrione. E allora concludemmo che da quel giorno avrebbe tentato di soppesare costantemente il pubblico, prima di salire sul palcoscenico, affidandosi alla sua parte intelligente e intuitiva, “staccare i biglietti” esclusivamente per se stesso e per chi solo da lui fosse ritenuto degno dell’istrione. Ci salutammo. Volle abbracciarmi. Lo abbracciai.

E Tony è stato un poeta? Lo è stato perché invadeva Termoli dei suoi libercoli o perché ha vissuto secondo la “poiesis” del Simposio di Platone (letteralmente un “produrre dal nulla”)? O perché ha vissuto poetando e verseggiando? Non lo ha fatto solo attraverso una penna o una tastiera, ma donando a chi lo incontrava un micro-tempo “poetico” per chiedersi chi fosse, cosa volesse dire, cosa pensasse, chi interpretasse in quel momento, cosa “producesse dal nulla” quell’incredibile personaggio che sembrava uscito dalla penna di Hemingway.
Ogni suo passo era accompagnato da una sola colonna sonora, le note di una canzone cara a tutti noi sessantenni: “Lo straniero”, di Georges Moustaky. Metà pirata, metà artista, che ruba quasi quanto dà… E via di seguito…
Chissà se qualche giovane, leggendo queste righe e magari incuriosito, vorrà ascoltare quelle note. Riconoscerà Tony, il grande Tony che, per dirla col suo amato Borges, ci ha salutati sulla soglia di un incontro impossibile. Così, banalmente. Senza pubblico. Per questo, ho voluto tirare un piccolo scherzo al destino scellerato che lo ha banalizzato nella morte; contravvenendo a quanto stabilimmo in quell’incontro, ho voluto offrirgli io quest’ultimo palcoscenico.
Vale, poeta-istrione!

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