Senso/8

La vergogna del bullo

Atti di prepotenza di ragazzi o bambini sono sempre più frequenti anche nella nostra regione. Ciò che occorre fare, innanzitutto, è accorgersi di questo ospite “inatteso e non voluto” - la violenza - e guardarla bene in faccia, iniziando a interrogarla e a lasciarsi interrogare da essa. Scopriremo allora che nella storia di una violenza temuta, taciuta, rivelata o nascosta, c’è tutta l’essenza del bullismo: un fil rouge di vergogna e di dolore muto che lega vittime e bulli da sempre e per sempre, ma anche famiglie e comunità…

“Che bisogna fare?” Questa è frequentemente la domanda inziale con cui prendono avvio le consultazioni che insegnanti e genitori chiedono a noi psicologi dopo atti di prepotenza di ragazzi o bambini, sempre più frequenti anche nella nostra regione.
Generalmente, il nostro lavoro inizia con una necessaria riformulazione della domanda di aiuto: pensare già a come “agire” per contrastare il bullismo, infatti, è di per sé una sorta di cortocircuito, una scelta operativa sintomatica di uno stato d’angoscia che contamina anche lo spazio della consultazione, non molto diversa dalla difficoltà che il cosiddetto “bullo” incontra nel riflettere sul proprio comportamento. La violenza spinge gli individui ad agire, è una coazione a ripetere la sostituzione del pensiero con l’atto. L’agire, non necessariamente in senso repressivo, sostituisce la riflessione; invece, si deve provare innanzitutto a capire cosa accade.

Non è utile mettere il bullismo o il bullo “alla porta” o contrastarlo con interventi non elaborati sulla base di una conoscenza approfondita del caso specifico. Il rischio, infatti, in questi casi è quello di pensare che il problema riguardi due individui (il bullo e la vittima) o al massimo un intero gruppo classe, e quindi si agisce di conseguenza. Escludere il contesto di convivenza più allargato è un passo che destinata tutti gli interventi al fallimento certo.
Partiamo dall’assunto che le stretegie “repressive”, intanto, non sono utili, anzi peggiorano spesso la situazione. Ma anche l’intervento prettamente clinico o psicoterapeutico non è sufficiente, e talvolta neanche necessario. Ciò che occorre fare, innanzitutto, è accorgersi di questo ospite “inatteso e non voluto” – la violenza – e guardarla bene in faccia, iniziando a interrogarla e a lasciarsi interrogare da essa.

Scopriremo allora che nella storia di una violenza temuta, taciuta, rivelata o nascosta, c’è tutta l’essenza del bullismo:un fil rouge di vergogna e di dolore muto che lega vittime e bulli da sempre e per sempre, ma anche famiglie e comunità.Mi spiace. Eravamo solo dei ragazzini” – ha detto un uomo dopo venti anni ad un paziente che nel corso di una seduta di psicoterapia ha ammesso: “Credevo di essere io l’unico a portarmi le ferite e, invece, anche lui porta con sé ancora la vergogna non molto diversa dalla mia”. In effetti, entrambi, nel corso degli ultimi venti anni, avevano condiviso una cicatrice che ne aveva rivelate altre.

E quelle ferite avevano avuto risonanza pure nelle preoccupazioni e negli “eccessi repressivi” dei genitori come anche nei sentimenti di impotenza degli insegnanti di fronte alle difficoltà scolastiche e sociali del bullo e della sua vittima, con riverberi, quindi, che denotavano il potere tentacolare e infestante della violenza nei contesti di convivenza.
Uno studio ventennale di E. Jane Costello, ricercatrice del Centro per le politiche familiari e dell’infanzia dell’americana Duke University, sugli effetti a lungo termine del bullismo, pubblicato sulla rivista di psichiatria JAMA Psychiatry, ha rivelato che le persone vittime di bullismo nell’infanzia, da adulti, sono oltre 4 volte più a rischio di sviluppare disturbi d’ansia rispetto a chi non ha subito (né agito) questi comportamenti. Le persone che hanno sia subìto che agito bullismo, invece, sono oltre 14 volte più a rischio di avere attacchi di panico da adulti e oltre 4 volte di cadere in depressione. Coloro che da adolescenti sono stati bulli, infine, hanno una probabilità oltre 4 volte maggiore degli altri di sviluppare un disturbo antisociale di personalità.

Inoltre, gli studiosi sono tutti concordi nel sottolineare come il bullismo si “radichi” nella personalità sia della vittima sia del bullo: le vittime sono più esposte al mobbing anche da adulti, i bulli hanno più probabilità di avere problemi con la Legge una volta adulti. Le conseguenze a lungo termine delle violenze ci obbligano ad allargare lo sguardo sia sulla dimensione spaziale (i contesti) sia temporale (le conseguenze nel breve-medio-lungo periodo).

Oggi sappiamo che il bullo vive sempre un disagio, ha un deficit di autostima che aggira mettendo in scena la violenza, per mezzo di una difesa psichica molto frequente negli individui che si sentono minacciati: l’identificazione con l’aggressore. “Se mi sento attaccato, reagisco aggredendo” – ma attaccato da chi? E perché? Il bullo convive generalmente con un proprio persecutore interno (la propria scarsa autostima, ad esempio, o esperienze di fallimento “affettivo”) e, piuttosto che guardarlo negli occhi, preferisce cercare protezione nel gruppo e attaccare la vittima designata, scelta tra coloro che possono essere funzionali alla “messa in scena” di un capovolgimento della trama interiore: “non io la vittima, ma qualcun altro; non qualcos’altro dentro di me mi perseguita, ma io sono il persecutore di qualcuno fuori di me”.

Essere un persecutore alimenta l’illusione perversa di non essere solo e impotente ma “popolare” e “potente”; in realtà, nel profondo, il bullo vive, come la sua vittima, persistenti sentimenti di vergogna e di impotenza. Sono questi i sentimenti che maggiormente caratterizzano le vittime e i bulli: è innegabile, d’altronde, che essere violento verso un’altra persona è una condizione vergognosa che espone ad una condizione (inferta o patita) di impotenza.
La natura difensiva del bullismo è smascherata proprio dall’accurata selezione delle vittime. Le prevaricazioni sono in genere rivolte contro bambini e adolescenti che per qualche motivo si allontanano da una supposta “norma”: grassi, magri, bassi, timidi, miopi, mancini, con la voce strana, molto studiosi, figli di immigrati, effemminati, malvestiti. Ma i tratti distintivi della vittima rivelano in realtà che il bullo è in competizione con se stesso. E tra le forme di bullismo più diffuse spicca quello contro i ragazzi e le ragazze omosessuali, o percepiti tali.

Spesso noi psicologi verifichiamo che le vittime raccontano di essere lasciate sole di fronte alle angherie dei compagni, ma qualcosa finalmente sta cambiando: ci sono sempre più insegnanti che sanno fornire supporto alle vittime di bullismo, anche grazie ad importanti progetti di sensibilizzazione e di prevenzione attuati a scuola con l’intervento qualificato di psicologi. E la Psicologia ha compreso come l’intervento a scuola necessiti di una rimodulazione di metodologie e obiettivi: non è utile nel contesto scolastico l’approccio clinico basato sui colloqui e sull’attivazione di sportelli di ascolto, né è sufficiente l’intervento psicoterapeutico, ma occorre puntare su interventi che agiscano sui “contesti di convivenza” e sulle “culture” dei gruppi nella scuola, nella famiglia e nella comunità.
Il bullismo è una reazione a un’identità fragile, è la cultura egemone che esclude il linguaggio delle emozioni, è la cultura che richiede elevate prestazioni fisiche e/o intellettive trascurando l’investimento sull’intelligenza emotiva, è un modo per rispondere ai dubbi sul proprio valore per cui i ragazzi dimostrano di essere “normali” con atteggiamenti di iper-sicurezza e aggressività, trattando male i ragazzi o i bambini più deboli.

I progetti di intervento incentrati sull’educazione alla diversità sono fallimentari: pretendono di insegnare ad accettare l’Altro, con una sorta di “vogliamoci bene”, trascurando che il bullismo risponde a un bisogno molto più profondo che è quello di riparare il proprio Sé danneggiato. Non è sufficiente allora parlare di “grandi vecchi” come Gandhi o di un grande scienziato sulla sedie a rotelle come Stephen Hawking o dire che Leonardo Da Vinci era gay. Certamente, scoprire che ci sono tanti modi di stare al mondo è sempre un arricchimento, ma il compito educativo della Scuola credo che in realtà sia molto più complesso e articolabile: aiutare i ragazzi e i bambini a capire chi sono e quali sono i propri bisogni affettivi.
Il confronto con se stessi, con la propria Ombra direbbe Jung – ossia con i propri tratti di personalità non accettati, temuti o di cui ci si vergogna – espone all’immagine di un sé “estraneo”, che comporta quindi una sorta di estraniazione e un disorientamento spesso insostenibile da cui il/la ragazzo/a vorrebbe liberarsi come se si sentisse abitato da uno sconosciuto. E’ qui che l’angoscia si annida e la violenza giunge come “in soccorso”, perché l’estraneo interiore può assumere tratti persecutori e minacciosi per l’autostima del ragazzo/a o del bambino/a.

Se attualmente si assiste ad un fenomeno, quello del bullismo, in forte aumento, la questione rimanda ad una sempre maggiore difficoltà ad incontrare “interlocutori” attenti, stabili, autorevoli capaci di rispecchiare i limiti, le differenze tra aspettative e possibilità, tra desiderio e norme: vale a direun padre e una madre non amicali, non tendenti a confrontarsi sul piano paritario, spinti da una idea di uguaglianza a tutti i costi, in una fase in cui sono necessari i puntelli, i riferimenti solidi che qualifichino ciò che si intende per Autorità e Limite.

Le conseguenze di ciò si rendono palesi e si manifestano soprattutto nell’ambiente scolastico ove gli insegnanti sempre più spesso lamentano l’enorme difficoltà, quasi l’impossibilità di doversi confrontare con una realtà relazionale ingestibile, dovuta alla carenza di regole con cui i bambini e i ragazzi vivono la loro prima esperienza sociale ufficiale.
Senza la Legge dei padri e delle madri nulla può acquistare valore di rispettoperché tutto diventa possibile, tutto si può pretendere, tutto può essere disponibile. E di fronte alla impossibilità di avere (un oggetto di desiderio) o di essere (diversamente da come si è) scatta l’aggressività, una reazione naturale della specie umana nei confronti di ciò che si manifesta come estraneità: è estranea la personalità profonda non accettata, è estranea la sofferenza legata ai limiti e alle conseguenti frustrazioni, è estranea la noia, estranea l’autorevolezza dell’adulto che limita e contiene la grandiosità e il desiderio irrefrenabile di affermazione dell’Io.

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