Dopo 13 anni

Impiegata in azienda ridotta a commessa dopo il figlio e poi licenziata. “Ho vinto la battaglia”

È durata tredici anni la vicenda di una mamma lavoratrice di Montenero di Bisaccia che ha impugnato il suo licenziamento dall’azienda tessile Gtm e ha vinto la battaglia in tutti e tre i gradi di giudizio. Al rientro dalla maternità Sabine Di Pinto si era vista prima demansionata (da impiegata a commessa nel centro commerciale) e poi licenziata per giusta causa per insubordinazione. Ha contestato i provvedimenti che l’azienda ha sempre ritenuto corretti e anche la Cassazione le ha dato ragione. La donna, difesa dagli avvocati Pietro D’Adamo e Marianna Salemme, è entusiasta: «Ho sempre avuto fiducia nei giudici anche se ho dovuto attendere tutto questo tempo». Una storia che si inserisce nel dibattito generale sui diritti delle donne lavoratrici.

Lasciare il lavoro per andare in maternità, un diritto riconosciuto dalla legge, e tornare in azienda in un contesto cambiato. Il suo posto occupato da altre persone e il suo ruolo cambiato, da impiegata con varie responsabilità in un’azienda tessile a semplice commessa in un negozio all’interno di un centro commerciale. La protesta all’epoca per questa situazione «nuova» e poi il licenziamento per giusta causa relativa a una condotta del lavoratore ritenuta di insubordinazione. Protagonista di questa storia una donna (e mamma) di Montenero di Bisaccia che si chiama Sabine Di Pinto. Oggi ha 42 anni, non lavora più alla Gtm e sua figlia ha 13 anni. Gli stessi che ha dovuto attendere per avere giustizia rispetto a quanto sostenuto in ogni grado di giudizio.

L’ex dipendente è stata difesa dagli avvocati Pietro D’Adamo e Marianna Salemme che in tutti questi anni hanno creduto nella fondatezza delle regioni della loro assistita con delle considerazioni evidenziate in una nota. Quelle che «avere un figlio è per molte donne un sogno che si realizza ma, purtroppo, per una donna che lavora o che sta cercando un lavoro, può trasformarsi in un handicap. Il rischio di subire discriminazioni, demansionamento e, in alcuni casi, addirittura il successivo licenziamento per alcune donne che restano incinte o che hanno in mente di farsi una famiglia, è davvero dietro l’angolo». In altre parole «non è affatto un luogo comune dire che il nostro non è un Paese per mamme lavoratrici e anche il Molise non fa eccezione».

Il punto di riflessione è che il demansionamento e il licenziamento della donna è sono intervenuti al rientro della maternità sebbene l’azienda abbia sempre confermato e ribadito la correttezza dei provvedimenti in ogni grado di giudizio. Ma anche la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dall’azienda tessile con il quale la società aveva chiesto la riforma della sentenza emessa nel 2013 dalla Corte d’Appello di Campobasso – che a sua volta aveva confermato la sentenza di primo grado del Tribunale di Larino – in ordine al licenziamento e al cambio di mansione della donna.

Una vicenda complessa, affrontata nei vari profili giuridici. All’epoca la donna, in sostanza, non si era recata al lavoro per contestare i provvedimenti assunti al rientro dalla maternità e poi era arrivato il licenziamento per insubordinazione nei confronti del datore di lavoro. La stessa ha deciso di rivolgersi alla magistratura trovando conforto in tutti i gradi di giudizio assistita dagli avvocati D’Adamo e Salemme: la condotta datoriale è stata considerata illegittima sia dai giudici di merito (Tribunale di Larino e Corte d’Appello di Campobasso), sia dalla Suprema Corte di Cassazione che nella giornata del 19 aprile ha dichiarato definitivamente infondato il licenziamento. Rispetto al reintegro la donna ha optato per le indennità sostitutive. Si conclude così una storia che si inserisce nel dibattito generale sui diritti delle donne e mamme lavoratrici. (FO)

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