Cronache

Koliba: in 8 mesi ha imparato l’italiano meglio degli italiani. “Studio, leggo, ascolto Al Bano”

Senegalese di 24 anni, è arrivato all’Happy Family di Campomarino nell’agosto scorso, dopo essere passato attraverso la Libia come centinaia di migliaia di connazionali. Lui però, Koliba Keita, è diverso. In poco tempo, munito solo di un dizionario italo-francese, ha imparato la nostra lingua in un contesto in cui nessuno la parla, arrivando a leggere libri e saggi in italiano e a scrivere racconti e testi di grande emozione.

L’Happy Family di Campomarino è lo stesso centro di accoglienza per migranti dove, un anno fa, è stato arrestato il giovane somalo con l’accusa di essere un Imam votato alla “guerra santa”. E’ stato condannato in Appello solo pochi giorni fa per istigazione al terrorismo.

Quando Koliba Keita è arrivato qua, nell’agri-villaggio sulla Statale 16 al confine con la Puglia riconvertito in struttura per richiedenti asilo, la storia dell’Imam era già un ricordo che cominciava a sbiadire. Era il 3 agosto del 2016, e lui, come i suoi compagni di viaggio, era sbarcato il giorno prima a Lampedusadopo un lungo viaggio dal Senegal al Mali all’Algeria alla Libia. Un percorso identico a quello di decine di migliaia di connazionali che lasciano l’Africa della fame e delle guerre, attraversando le insidie del mare e dei trafficanti di uomini, in cerca di una seconda chance. L’obiettivo, per tutti, è ottenere il permesso di soggiorno e vedere accolta la domanda di asilo politico, per poi ripartire, con l’agognato foglio di carta in tasca, verso i luoghi dove si trovano amici e parenti. La Germania, la Francia, il nord Europa, dove le possibilità occupazionali sono più numerose, e dove vivono grandi comunità di extracomunitari.

Insomma, possibilmente andar via dall’Italia. Koliba però, che quando ha messo piede sul suolo italiano aveva da poco “festeggiato” 24 anni, è diverso dai suoi compagni di viaggio. Lui in Italia ci vuole restare, e in Italia immagina un futuro anche lavorativo e di indipendenza economica. «Campomarino? Termoli? Campobasso o Roma? Questo non lo so ancora, non mi interessa. Mi piace l’Italia, e voglio dimostrare di poter vivere dignitosamente» racconta tra libri, quaderni di esercizi e dizionari nel soggiorno del piccolo e malmesso bungalow che condivide con un coetaneo.

Ed è per questo che, a differenza dei suoi compagni di avventura, quelli sopravvissuti alle tribolazioni della traversata e finiti nei centri di accoglienza del Molise, Koliba Keita, partito da Tambacounda dove ha lasciato la madre («Mio padre è andato via tanto tempo fa, ci ha abbandonati e io non so nulla di lui. Sono figlio unico») ha imparato la nostra lingua. Non solo a parlarla, ma anche a leggerla e a scriverla. Otto mesi dopo il suo arrivo all’Happy Family, l’italiano lo padroneggia alla perfezione al punto da scrivere testi che sono anche poesie, emozionano, presuppongono una conoscenza dei vocaboli e della grammatica poderosa. Tutti gli altri frequentano la scuola di italiano un giorno su 5, e di malavoglia. «A che ci serve? Noi vogliamo andarcene». Lui invece ci va tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, mezz’ora con l’insegnante che si dedica solo a lui perché sta a un livello di apprendimento troppo avanti rispetto agli altri.

Per Koliba lo studio dell’italiano è una mission giornaliera. «Sono arrivato fin qui – spiega con calma, nascondendo i brutti ricordi dietro un sorriso educato – per restarci, non per andarmene dopo la protezione internazionale. E restare qua non è possibile se non comprendi la lingua di questa Paese».
In soli otto mesi lui è riuscito a capirla e a scriverla, come e meglio di tanti studenti italiani che, forse perché non leggono mai, fanno ancora quegli errori che i maestri di una volta sottolineavano due volte con la matita rossa.
«Come ho fatto? Mi sono messo a studiare. Ho cominciato con questo piccolo dizionario che mi hanno regalato» continua Koliba indicando il vocabolarietto italiano-francese, diventato il suo amico inseparabile.
8 mesi. Mentre i suoi amici e compagni se ne andavano in giro a Campomarino, sulla spiaggia, montando su biciclette traballanti e percorrendo la Statale 16 per arrivare nei centri urbani più vicini – l’Happy Family è isolato, e non ci arrivano nemmeno gli autobus – lui si chiudeva in quella che chiama «casa mia», la stanza dove dorme in una delle tante casette disseminate sui prati del villaggio, con il cellulare sul quale «ho scaricato una App che traduce l’italiano», le fotocopie della insegnante di lingua e i libri. I libri?

«Leggo in italiano, in realtà lo ho imparato proprio così. Leggendo. Ed è così che ho imparato anche a scriverlo».
E non frasi da scuola elementare – soggetto predicato e verbo – come ci si potrebbe immaginare da un ragazzo che ha studiato solo 10 anni nella sua città, Tambacounda, a 100 chilometri da Dakar, che si è dovuto arrangiare, che ha sperimentato l’inferno della Libia, costretto a vivere di espedienti prima di affidare tutti i suoi risparmi a uno scafista per approdare sulle coste siciliane. Koliba Keita, che ha stupito il pubblico mentre sul palco del teatro Fulvio di Guglionesi leggeva un suo testo preparato per la settimana dell’interazione, scrive cose del genere: «Siamo migranti e veniamo da lontano. Siamo quelli che non chiedono mai perdono: il nostro motto è stare sempre in piedi. Abbiamo una sola faccia, una sola versione. Siamo i predatori di un cammino fatto a modo nostro». Mette in fila parole spiazzanti come queste: «Eravamo un centinaio, gli uni accanto agli altri. Tutti insieme sul cammino del fato. Andando al fronte con la speranza come arma. Eravamo pronti a qualsiasi evenienza. A nessuno usciva una lacrima, ma tutti piangevano dentro l’anima in silenzio».

Il 3 agosto scorso di italiano non sapeva una parola, nemmeno come si dice casa. Oggi lo parla con scioltezza e padroneggia vocaboli difficili. «Parlo francese, pochissimo inglese – continua – e qui al campo con gli altri, per capirci tra di noi, soprattutto il maliano o il gambiano, e il bambarà, che ho imparato qua perché non è una lingua che si parla nel mio Paese». Una predisposizione naturale, accompagnata da una determinazione senza pari: «Io voglio imparare l’italiano – scandisce con un lampo di angoscia nelle iridi nerissime – devo impararlo. Quando uscirò da qui non dipenderò più da nessuno. Ora mi danno da mangiare, da bere e da dormire, poi dovrò essere indipendente. Voglio vivere in modo dignitoso, ecco perché studio. Non so ancora tante cose, ma le imparerò».

Anche se è difficile restare ore e ore chiuso nel bungalow a sfogliare il vocabolario e leggere testi in italiani. Anche se non c’è internet, tranne un piccola zona coperta dal wi-fi, e anche se a parte qualche operatore che chiaramente non ha tempo di mettersi a conversare con uno dei duecento ospiti del centro, nessuno parla italiano e lui non può esercitarsi, con l’eccezione della mezz’oretta mattutina di lezione “personalizzata” a scuola.
Una televisione c’è negli spazi comuni, e di sicuro vedere film in italiano lo aiuterebbe, «ma la tv è per tutti, e nessuno vuole guardare film in italiano. Solo inglese o francese». La conoscenza non è una impresa semplice per Koliba Keita.

«Con chi parlo? Con i cantanti. Ho scaricato tanta musica italiana che ascolto per imparare». Nello smartphone c’è Al Bano («Felicità mi piace tantissimo»), c’è Toto Cotugno («La Domenica italiana fa capire tante cose del tuo Paese»), cantautori che scandiscono bene le parole e le frasi e per Koliba sono un aiuto concreto, anche se magari sono passati di moda e i loro brani d’antan fra i coetanei di Koliba strappano perfino un moto di ironia.

Quando hai fame, d’altronde, è così: non stai a guardare tanto per il sottile. Koliba è affamato, vuole capire, vuole farsi capire, e non ha nessunissima intenzione di aspettare che arrivi la provvidenza a salvarlo dalla sua condizione di migrante. <Non so cosa farò, chissà da che cosa è fatto il domani. So però che voglio restare qui, avere una vita migliore e vivere nella dignità. Voglio fare qualcosa qui in Italia, anche se non so cosa. Anche se in questo momento tira una brutta aria tra italiani e migranti, vedo una gara a chi alza il muro più alto. Non io. Sto aspettando la risposta della commissione, spero accolgano la mia richiesta. Poi resterò in Italia. E l’italiano sarà la mia lingua». (mv)

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