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Assaggiatore? No, sommelier: “Il vino fa il vero guadagno. Ma il più venduto è quello chimico”

Da studente di ingegneria a commissario nazionale dei concorsi e giudice internazionale di sommelier grazie a un corso da barman. Intervista a Rudy Rinaldi di San Giacomo degli Schiavoni. «Questa è una professione, non un diploma, ma si fatica a dare dignità a questo mestiere, anche perchè mancano percorsi scolastici specifici». Il 46enne di origini toscane spiega i nuovi orizzonti del suo lavoro: «Siamo venditori e comunicatori, abbiamo la responsabilità di una grossa fetta di reddito per le aziende». E boccia il largo consumo di vino al cartone «pieno di sostanze chimiche e tuttavia il più venduto in Italia».

Raramente quando si assapora un bicchiere di vino si pensa che dietro quel liquido colorato vagamente inebriante ci sia un vero e proprio mondo, fatto di cultura, economia, tradizione, gastronomia, lavoro. Un mondo che è quello in cui si inserisce a pieno titolo la professione di sommelier. «Esatto, una professione, non un diploma» precisa Rudy Rinaldi. Originario della Toscana ma trapiantato in Molise e da tempo residente a San Giacomo degli Schiavoni, 46 anni, oggi Rudy è commissario nazionale dei concorsi dell’Aspi, l’associazione delle sommelierie professionale italiana, l’unica riconosciuta a livello internazionale. Insomma l’uomo giusto per parlare del lavoro di una professione in grande ascesa.

Spesso si pensa alla figura del sommelier come a un mero assaggiatore. Una concezione superata?
«Sì. Da quando io ho iniziato, il mestiere è molto cambiato perché è in continua evoluzione. In un’azienda di ristorazione, non è solo colui che si occupa della somministrazione. È anche colui che sceglie la conservazione del vino, che ha rapporti coi fornitori e le cantine e dispone di un proprio budget da parte del ristorante per fare la carta dei vini. Insomma è un venditore e deve portare reddito a quell’azienda».

Ci sono in ballo parecchi soldi?
«Oggi in un ristorante la percentuale di guadagno più che dal cibo è data dalle bevande. Il cibo incide forse sul 30 per cento, basti pensare a ristoranti stellati nei quali si spendono cento euro per mangiare e centinaia per i vini».

È questo che fai tu oggi?
«In questo momento faccio start up per aziende della ristorazione. Mi occupo di formazione per chi vuole avviare un ristorante e non ha un’idea oppure vuole migliorare l’attività che ha già. Inoltre vado alle fiere e rappresento le cantine e i loro vini, anche in inglese. Quindi lavoro sia in Italia che all’estero. Di recente sono stato a Londra e in Canada, ho anche dei contatti con una cantina sudafricana. Ormai il sommelier non è solo chi sta al ristorante, ma anche un comunicatore che deve comunicare bene il vino e un venditore ad alto livello».

Come sei arrivato a questo? Nel senso, hai sempre avuto la passione del vino?
«Mia mamma è chef e sono sempre stato in mezzo ai fornelli. Poi mio nonno era un produttore artigianale di vino, aveva le vigne in Maremma. Io però avevo iniziato a studiare ingegneria, ho fatto 3 anni e superato 21 esami col vecchio ordinamento. Poi, per trovarmi un lavoretto, decisi di fare un corso da barman».

La scelta che ti ha cambiato la vita?
«Beh, fui il migliore a quel corso e gli insegnanti mi pregarono di tentare quella strada. Mi appassionai subito, ma la vera sliding doors è stata quando ho vinto il concorso delle matricole a livello nazionale dopo essere stato il miglior corsista in Molise nel 2005. Da lì ho iniziato a fare dei corsi e mi sono tolto delle belle soddisfazioni. Mia moglie inoltre condivide la mia stessa passione ed è anche lei sommelier».

Che requisiti bisogna avere per diventare sommelier?
«In teoria lo potrebbero fare tutti, ma nella pratica è un lavoro al pubblico e ci vogliono qualità che nei corsi non si possono insegnare cioè umiltà, educazione e modo di porsi. Inoltre non bisogna essere troppo timidi perché si è comunque dei venditori. A parte questo, con lo studio si può arrivare a un buonissimo livello anche dopo i 30 anni».

Esistono scuole specifiche?
«In Italia gli Istituti Alberghieri non hanno una specializzazione per sommelier. Tuttavia da due anni l’Alberghiero di Termoli ci ha chiamato per svolgere un corso completo con una classe della scuola. Questo però deriva dalla sensibilità della dirigente Maria Chimisso che ha capito di avere a che fare con dei professionisti come noi dell’Aspi. Stiamo avendo un buon riscontro, tanto che uno degli studenti poi ha deciso di fare Enologia all’Università. Sono soddisfazioni perché in questo modo si incide sulla vita delle persone».

Riassumendo, la formazione è affidata alle associazioni.
«Esatto. L’Aspi è l’unica riconosciuta a livello internazionale, in 60 Paesi nel mondo. Il prossimo corso a Termoli partirà giovedì prossimo 23 marzo (info qui). Ogni volta abbiamo fra i 25 e i 30 iscritti. Ci sono poi altre associazioni che fanno dei corsi. Purtroppo oggi tutti sono sommelier».

Che intendi?
«Questa è una professione, non un diploma. C’è gente che fa i corsi e poi non applica quanto imparato. Purtroppo in Italia è difficile dare dignità a questo lavoro. In Francia è diverso, c’è proprio una specializzazione nella scuola alberghiera. Perciò è più facile trovare lavoro a un certo livello fuori dall’Italia».

Ci sono persone formate da voi qui in Molise e andate all’estero?
«Certo, gli esempi sono molti. Cito un ragazzo di 19 anni che ha iniziato il corso con noi quando ne aveva 16. Si è appassionato, ha studiato e adesso lavora in un Hilton hotel di Londra, seguendo inoltre l’università per diventare Food and Beverage Manager nella capitale inglese. Un’altra ragazza fa la sommelier a Parigi. Era entusiasta dei nostri corsi ma non sapeva il francese. È andata a fare la ragazza alla pari, ha imparato la lingua e ora lavora in un ristorante parigino. Consiglio a tutti quindi di imparare un’altra lingua».

È un mestiere che non ha molta visibilità, non è così?
«C’è più attenzione a ciò che si mangia che a ciò che si beve e lo vediamo dalle trasmissioni televisive come Masterchef. Questo perché chiunque mangia e molti cucinano. Col vino è più difficile ma sono certo che la visibilità andrà ad aumentare».

Qual è la cosa più difficile per un sommelier?
«Durante le prove e i concorsi, la cosa più difficile è riconoscere i vini alla cieca, cioè degustarlo e indovinare il vitigno, la zona o addirittura l’annata che è davvero arduo. In generale per un sommelier è difficile avere a che fare con clienti particolari, che magari contestano bottiglie buone. Puoi avere dei problemi se quella bottiglia costa 2-3mila euro. Serve esperienza per gestire certe situazioni poiché si gestiscono molti soldi e se sbagli la responsabilità è tua».

Siete voi a scegliere gli abbinamenti vino-pietanza?
«La scelta è sempre concordata col cliente. Il sommelier deve essere bravo a capire la psicologia del cliente. Se lui sceglie qualcosa che non si abbina bene, tipo un Masseto con un rombo al forno con patate, glielo si porta e basta. Se invece capisci che ha bisogno di un consiglio o è indeciso, puoi indirizzarlo».

Ma che il vino rosso non si addica al pesce è un luogo comune o è vero?
«In linea generale è vero. Tuttavia ci sono alcuni vini rossi che stanno bene con alcuni piatti di pesce. Però aggiungo che l’ideale è abbinare un vino diverso per ogni portata. Per questo ormai molti ristoranti propongono l’offerta di vino al bicchiere».

Altra domanda per sfatare o confermare una diceria: è vero che sputate il vino dopo averlo assaporato?
«Ci sono sessioni, come al Vinitaly, in cui puoi capitare di assaggiare 30 o 40 vini in due ore. Per cui gli ultimi vini di sicuro non vengono assaporati quanto i primi perché le papille gustative si stancano. In quei casi sì, il vino viene sputato, fin da subito, ma è un’esigenza. Di solito ci si sciacqua la bocca con dell’acqua o con uno spicchio di mela».

Capita di stroncare un vino?
«Certo, bisogna avere il coraggio di farlo. Io però preferisco non parlarne e metterlo via, piuttosto che parlarne male in pubblico. Occorre stare attenti».

Mai corso il rischio di ubriacarti quando invece il vino viene mandato giù?
«No, cerco sempre di non esagerare. La mia ultima sbornia risale a 20 anni fa. Quando beviamo e chiaramente non guidiamo, ci fermiamo sempre un attimo prima di andare oltre e rovinare il gusto. Fare il sommelier vuol dire anche essere educati al vino. E poi dico un’altra cosa».

Prego.
«L’inebriamento è dato dalla quantità di alcol contenuta in quel che si beve. Di solito si sta male se si beve parecchio o si beve alcol di cattiva qualità, tipo i vini del discount o quelli corretti in cantina. L’insegnamento maggiore che diamo nei nostri corsi è smascherare questi prodotti».

Ce ne sono molti in commercio?
«Tantissimi. Il vino è l’unico alimento per il quale non è obbligatorio scrivere gli ingredienti presenti. Si dà per scontato sia solo mosto d’uva fermentato, in realtà possono esserci oltre cento sostanze chimiche legali usate per correggere il vino».

Di che tipi di vino parliamo?
«Generalmente quelli contenuti nei brick che si vedono alla pubblicità in televisione. Non hanno annata, sono tutti uguali, cosa impossibile perché il vino cambia per anno e per provenienza dell’uva. Sono vini standardizzati fisicamente e chimicamente in stabilimento. Per cui alla lunga berne tanto non può fare bene».

Eppure sono vini di largo consumo.
«Quello nel cartone è il vino più bevuto in Italia. È un po’ il Big Mac dell’enologia, cioè un bene di largo consumo a basso prezzo. Merito del marketing che lo fa entrare nelle case italiane tramite i media convincendo le persone che quello è uno standard di qualità».

Ma in Italia quanto vino si beve?
«Il consumo è molto calato. Agli inizi degli anni Ottanta la media era quasi di 100 litri pro capite all’anno. Adesso siamo sui 36-38. Questo perché prima era un alimento, basti pensare alla fiaschetta di vino dei nostri nonni o bisnonni. Oggi è un complemento. In compenso è un po’ salita la qualità, ma c’è ancora molto da fare».

Il Molise invece come se la cava? Abbiamo la qualità giusta?
«Nei contesti internazionali il Molise è davvero piccolo. Regioni ben più grandi della nostra fanno fatica, come le Marche. Alcune cantine stanno facendo molta qualità ma il problema è che c’è pochissima quantità. Solo Val d’Aosta, Liguria e Calabria ne producono meno in Italia. All’estero, in determinati contesti si firmano contratti per un milione di bottiglie. Da noi al massimo se ne producono 60mila».

Come si potrebbe migliorare?
«Si potrebbe creare un consorzio per vendere il vino Molise e non quello delle singole aziende. Su questo c’è ancora molto da lavorare. Occorre promuovere il territorio, un po’ lo si sta facendo con la Tintilia, ma è una goccia nel mare. Poi bisogna aumentare il numero di cantine, sono meno di 30 attualmente».

E a livello turistico?
«Oggi il turismo è di basso livello. Ci sono la pizzeria e il ristorante di pesce ma il target a cui mi rivolgo io è ben più alto. Le possibilità di crescita ci sono, però ai nostri corsi ci sono molti più clienti che operatori del settore. Chi si è aggiornato però lavora bene. Chi non lo sta facendo è in difficoltà».

Quasi tutti i locali hanno una buona scelta di birre ma quasi nessuno di vini. Perché?
«Per il discorso che facevamo prima. Di locali con una buona carta di vini ce ne sono tre o quattro. In altri capita ancora che ti presentino semplicemente rosso o bianco che è una cosa improponibile. Ma la cosa peggiore è che non si sa servire il vino per cui si vedono errori che magari gli italiani non riconoscono ma inglesi, tedeschi e olandesi abituati a girare sì».

E quanti sommelier ci sono in Molise?
«Direi 25-30. Quelli che hanno fatto il corso e non lo applicano non li considero. Tanti altri invece lavorano fuori».

Un consiglio per i consumatori. Come si riconosce un buon vino?
«Domandarsi dove è stato conservato quel vino, dove è stato stoccato e per quanto tempo è stato esposto. Spesso già il colore ossidato ti indica che quel vino non è buono».

Ultima domanda: scegli un vino da gustare, così su due piedi.
«L’Amarone della Valpolicella. È un vino molto particolare, sta bene sia coi cibi che da solo. Mi rappresenta come carattere e mi ci rivedo».

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