Società & Costume

Fuga da casa e dall’orrore Parla uno scampato alle Foibe

Nella giornata del ricordo Angelo Tomasello, 78 anni, costretto a lasciare l’Istria dopo la guerra, racconta i crimini di Tito. Il suo viaggio a Torino e poi a Termoli, dove oggi vive.

Forse nessuna tra le grandi questioni ereditate dalla guerra ha tanto diviso l’opinione pubblica, ancora oggi dopo sessant’anni, quanto quella istriana. Troppo profondo il solco scavato dall’odio in quegli anni, originato dalla scoperta dei crimini delle foibe, dalle stragi naziste, come dai tentativi di cancellare con violenza le reciproche identità nazionali, dalle vendette personali. E per finire, quale frutto amaro degli accordi di pace, l’esodo di centinaia di migliaia di italiani da quelle terre che considerano tuttora madre patria. Il resto lo ha fatto un’incessante propaganda e certi recenti tentativi di riscrivere dal proprio punto di vista pagine intere di storia.
 
Nella ricorrenza della “Giornata del ricordo” ne abbiamo voluto parlare con un testimone diretto, il “profugo istriano” Angelo Tomasello, classe 1928, originario di Pola, ex capo reparto allo stabilimento Fiat di Termoli.
 
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«Avevo due anni quando la mia famiglia si trasferì a Pola da Canfanaro, un paesino poco distante. In città la maggior parte della popolazione era di etnia italiana e io sono cresciuto in quel clima, avendo però ottimi rapporti con i miei compagni di lingua croata. Ne avevo a scuola come nel vicinato. Nel 1943, al tempo delle scuole industriali, ricordo che il mio compagno di banco era uno di questi, si chiamava Michele Glavic, abitava a Barbarino, dirimpetto alle isole Brioni, e a scuola veniva in bicicletta».
 
«Pola allora contava 45 mila abitanti e praticamente non c’era disoccupazione. Due grosse industrie: la Manifattura tabacchi e l’arsenale militare, dove si revisionavano i motori, assorbivano tutta la manodopera disponibile. Il solo arsenale occupava 20 mila persone. Mio padre allora faceva l’autista di corriera per l’INT (Istituto Nazionale Trasporti)».
 
Rammenta se con il fascismo c’era stata una politica di italianizzazione tesa a distruggere l’identità croata e slovena?
Sì c’è stata e i più decisi ad applicarla erano taluni elementi fascisti. Molti slavi cambiarono anche il nome. Per esempio mia moglie lo mutò da Reggent a Reggente, ma non le fu imposto. Mio suocero lo fece nel 1929, all’indomani del Concordato tra Stato e Chiesa.
 
Lo fecero per evitare il peggio?
Ci sono state forzature, è vero, ma individuali.
 
Questo però ha accumulato altro odio, non le pare?
…e che noi italiani poi abbiamo pagato caro.
 
Ricorda qualche episodio al riguardo?
A Pola no, forse questo è accaduto più nei paesi dell’interno, che erano a maggioranza slava.
 
Per quella politica c’erano stati esodi di popolazione slava dall’Istria?
Da quello che ho saputo si verificarono all’inizio. Alcuni fascisti hanno rovinato la situazione, perché fino al 1943 a Pola e in gran parte dell’Istria non era successo nulla, a differenza della zona più a nord, tra Trieste e Fiume. Là sì, perché la maggioranza della popolazione era di etnia slava, la quale sobillata dai comunisti cominciò a far saltare ferrovie, ponti, strade. Ma già si era in guerra.
 
Quando capì che la situazione a Pola si sarebbe messa male?
Accadde nella primavera del 1940. Una mattina andando a scuola vidi un assembramento vicino la Prefettura. La strada era bloccata dai carabinieri e un gruppo di giovani studenti faceva un grande fracasso chiedendo che il prefetto comunicasse a Mussolini di dichiarare guerra all’Inghilterra. Capii allora che la situazione stava cambiando in peggio.
 
Erano istigati dai fascisti?
Beh, quelli di quel giorno erano abbastanza scalmanati. Fino all’8 settembre del ‘43, però, la situazione non degenerò. Dopo sono scesi in piazza gli antifascisti, soprattutto gli operai dell’arsenale, slavi, ma anche italiani, in gran parte comunisti. Ai Giardini Valeria hanno assalito i carabinieri che, per non farsi sopraffare, reagirono sparando. Ci furono due morti e molti feriti.
 
Ricorda altri episodi del genere?
In quel periodo molti corsero dei rischi e anche mio padre. Rischio di essere “infoibati” dai comunisti, tanto che avevamo paura ad uscire fuori dalla cinta di Pola.
 
Ma chi poteva temere cose del genere?
Certamente i responsabili di tutto quello che era successo prima, cioè i fascisti più scalmanati, ma pure chi non c’entrava nulla. Parecchie furono in quei giorni le vendette personali.
 
Ma non c’erano i tedeschi a Pola?
L’esercito non c’era mai stato prima, c’era la marina militare con la base dei sommergibili, ma stavano rintanati, consegnati.
 
Le risulta che negli stessi giorni ci siano state nell’interno sollevazioni contadine?
Sì e appartenevano alla razza croata, ma vi erano anche comunisti italiani e altri. Questo fino a quando non sono sopraggiunti i nazisti che fecero piazza pulita sia di partigiani che d’innocenti, tra i quali mio cognato.
 
Atrocità a non finire…
Non guardavano in faccia a nessuno. Mio cognato era della Croce rossa, pensi era andato a comporre le salme che estraevano dalle foibe. L’hanno fermato, insieme ad altri, tra Pisino e Lindaro e li hanno ammazzati tutti. In quei giorni morirono in tanti. Come vedevano qualcuno gli sparavano.
 
Alla sua famiglia non successe nulla?
Mio padre la scampò prima, dai titini. Lo fermarono con tutte le persone che stavano sulla corriera che guidava. Anzi, le corriere erano due, un’ottantina di persone. Furono tutte condotte al castello di Pisino e lì imprigionate. Processate sommariamente, a gruppi vennero buttati in una grossa foiba sottostante. Mio padre si salvò perché quando arrivò il suo turno i bombardieri tedeschi colpirono il castello aprendo dei varchi dai quali fuggì.
 
Di cosa li accusavano?
Lo sa lei? Quelli che non la pensavano come loro, anche slavi, facevano tutti una brutta fine. Per esempio quegli slavi che lavoravano come manovalanza con gli italiani nelle cave di bauxite furono ammazzati tutti.
 
In quanti si salvarono quella volta?
In dieci o dodici. Mio padre tornò a casa dopo due giorni, sporco e insanguinato.
 
Fino alla primavera del 1945 cosa successe a Pola?
Tornato a scuola quel mio compagno di banco (Michele Glavic, ndr) m’invitò a unirmi a “loro”, cioè ai partigiani. Lui già ne faceva parte. Era già stato arrestato una volta dai nazisti e a salvarlo fu il preside che, sfruttando il suo lavoro d’interprete, garantì per lui. Un giorno questo ragazzo portò a scuola manifestini di propaganda in cui si parlava di annessione dell’Istria alla Jugoslavia. Vedi – gli ho detto – se è così io non posso proprio venire con te. Poco dopo abbandonò la scuola e non l’ho più rivisto.
 
E dopo la liberazione cosa avvenne in città?
Intanto l’Istria era in mano ai partigiani del IX Corpus di Tito ed anche Pola. Quaranta giorni durò la loro presenza in città, poi arrivarono gl’inglesi. Avevo smesso d’andare a scuola e lavoravo con loro portando i rifornimenti alle truppe dislocate a protezione della città. In quel periodo sparirono dall’Istria 20 mila persone.
 
Conosceva qualcuna delle persone sparite?
No, l’ho saputo dopo. Sa come hanno fatto? Hanno contato i presenti e li hanno detratti da quelli che c’erano prima. Il saldo corrispondeva a quella cifra.
 
Un po’ difficile stabilirlo, non le pare? Non potevano essere fuggiti?
È possibile.
 
Coloro che sotto i fascisti e i nazisti patirono si vendicarono in quei giorni?
Quelli che conoscevamo noi no. Solo uno nel cortile dove abitavo, che era di Parenzo, andava ripetendo che quando tutto sarebbe finito «v’impiccherò a tutti questi alberi». Avevamo paura.
 
Scherzava o lo diceva sul serio?
Quello era un po’ bastardino, sa…
 
Nel 1947 chi v’invitò ad andare via?
Il governo italiano, dopo che l’Istria e anche Pola, fino ad allora sotto gl’inglesi, era stata ceduta alla Jugoslavia.
 
Ne discuteste in famiglia?
Non c’è stato nessun bisogno. Eravamo tutti convinti, io più di tutti.
 
Perché?
Vede, quello che c’impressionò erano stati i massacri delle foibe. Quelli che sarebbero arrivati per noi erano i peggiori, una teppa di gente che non ragionava, inzuppati di odio verso noi italiani che consideravano tutti fascisti. Non volevamo finire in mano loro.
 
La sua famiglia era stata fascista?
No, anche se mio padre per fortuite circostanze in un certo periodo aveva preso la tessera, ma non a Pola. Tornando all’esodo ci dissero che stavano approntando in Italia dei campi profughi e per chi volesse optare per l’Italia mettevano i camion a disposizione per il trasporto delle masserizie all’imbarco. Io facevo parte di una squadra di cinque persone adibite a questo scopo.
 
Potevate scegliere dove andare?
Mio padre desiderava raggiungere Genova, mentre io avevo in mente Torino perché volevo andare a lavorare alla Fiat. Finimmo che andammo tutti a Torino.
 
Ricorda il momento del distacco dalla sua città?
È stato tremendo. Soprattutto quando da bordo del “Toscana” ho visto piano piano scomparire la città… (e qui si ferma per la troppa commozione. ndr) e poi il campanile di S.Antonio che era il più alto di tutti. Basta.
 
Quando ci ritornò la prima volta?
Parecchi anni dopo, quando eliminarono l’obbligo di chiedere il visto d’ingresso.
 
Che effetto le fece?
Quello di andare a piangere davanti alla mia vecchia casa.
 
Ci racconta l’arrivo in Italia?
Sbarcammo ad Ancona e l’accoglienza dei portuali fu ostile. I portuali inveivano contro di noi perché avevamo abbandonato il “paradiso” titino. A Torino le autorità avevano organizzato un centro di raccolta alle Casermette San Paolo e lì ci condussero. Ci diedero due cavalletti, un tavolato e un materasso ciascuno con una coperta. Con le coperte facemmo un divisorio. Eravamo cinque adulti e una bambina piccola, figlia di mia sorella. Lì c’era anche un’infermeria e un posto di polizia.
 
Quanto tempo rimaneste alle Casermette?
Uscimmo due anni dopo. I miei genitori avevano chiesto il trasferimento perché la mamma s’era ammalata e così per cambiare aria li mandarono al “Cibali” di Catania, dove poi morirono. In seguito le due sorelle e la bambina che si trovavano con noi si trasferirono in Australia.
 
E lei?
Io rimasi a Torino e il 15 febbraio del 1949 entrai in Fiat, al Lingotto, come operaio. All’inizio facevo un brutto lavoro, poi passai a fare un lavoro migliore a Mirafiori. Frequentai le scuole serali diplomandomi motorista e presi anche il diploma di geometra. Fui promosso prima operatore, poi capo squadra e infine capo reparto.
 
E a Termoli quando arrivò?
Quando misero lo stabilimento, nel 1973. Mi chiesero se avessi voluto trasferirmi e così dopo qualche titubanza e un sopraluogo che feci con mia moglie accettai. Termoli ci piacque subito anche perché c’era il mare, lo stesso di Pola.
 
È possibile oggi parlare della vostra tragedia senza strumentalizzazioni?
Vede, solo adesso noi possiamo parlare. In queste condizioni ci hanno messi anche i governi democristiani.
 
Comprendo che ce l’abbia con i comunisti, ma i dc che c’entrano?
Glielo spiego. Il Trattato di Parigi del 1947 stabilì che chi aveva una proprietà in Istria la conservava. L’Italia, d’accordo con la Jugoslavia, accettò che quei beni fossero considerati acconto per i danni di guerra, espropriandoli. E in aggiunta per noi esuli c’è tuttora il divieto di comprare casa in Istria. Il trattato di Osimo del 1975 ha fatto il resto.
 
Il 10 febbraio “Giornata del ricordo” tornerà a Pola?
Ci andrò in primavera, soprattutto per mettere un fiore sulla tomba di mio cognato. Poi andrò a trovare qualche vecchio amico. Per il resto ci rimangono solo amari ricordi, quelli dei morti e delle sofferenze.
 
Dal suo racconto si capisce che non ancora ha superato il risentimento…
Non ci riesco proprio.

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