Termoli ieri e oggi

Le cantine del Borgo: da Crecefisse a Mazzafòje …a Ghjiettòne

Voci e suoni del tempo che fu rivivono dentro un’abitazione privata del Piano Cardone, uno dei luoghi più suggestivi del vecchio Borgo di Termoli caro alla memoria della sua gente. I soprannomi più che l’anagrafe, il dialetto come linguaggio identitario

Sono in molti a pensare che quella di via Federico II di Svevia 69/71 sia una cantina, cioè uno di quei locali, un tempo numerosi, dove si consumava e si vendeva vino al minuto. In effetti cantina quella casa lo è stata per una decina d’anni, gestita da uno sperimentato oste: Saverio Cannarsa, detto “Mazzafòje”. E, alla sua morte, dai famigliari. Nel 1989 però subì un cambio di destinazione: divenne circolo ricreativo (del Centro Sportivo Italiano). Da qualche anno è tornata ad essere, come in origine, un’abitazione privata, nella quale il proprietario Antonio Di Cesare, impenitente scapolo di 63 anni, commerciante di pesce in pensione, più noto come “Ghjiettòne” (Ghiottone), s’intrattiene con i suoi numerosi amici.
 
Questi, certamente, non hanno studiato a Oxford, come del resto lo stesso “Ghjiettòne. Non sono abituati a usare il linguaggio colto e raffinato di certi ambienti, e neppure usano accogliere gli ospiti in frac e guanti bianchi. Il loro modo di comportarsi è improntato alla più pura genuinità, il parlare tutt’altro che ovattato e diplomatico. Da qui, forse, nasce la convinzione che al Piano Cardone ci sia ancora la cantina con i suoi tipici avventori. Ma non è così. Con una collega de “Il Quotidiano”, una di queste sere abbiamo fatto loro visita, finendo con il restare a mangiare ciò che stavano preparando: “lambascioni” con l’uovo e salsiccia.
   
Ed è stata una serata indimenticabile, con l’esibizione canora fuori programma di Armando Traini, vincitore nel lontano 1968 di una puntata della “Corrida”, la cui voce ancora oggi è possente, e i travestimenti di Lino Marolla, 70 anni, detto “Sèppamòrte”. Altrettanto simpatici gli altri commensali, da Rocco Russo “U cencenäre” al cugino Antonio Russo “Krusciòff”, Nicolino Bisignani “U dóttóre”, Giovanni Di Vito “Gatto verde”, Pasqualino Ludovico “Cepólle” e naturalmente “Ghjiettòne”. Un campionario umano vario e colorito, identificabile più attraverso i soprannomi che la patente.
 
E ne mancavano altri che avrebbero sicuramente arricchito la compagnia, come, ad esempio, Paolo Costantino “U calefatäne”, “Pentalétte”, Strejòne”, “Sciaqquétte”, ecc., altrettanto simpatici come i primi e dotati anch’essi di un’espressività popolare ormai rara che in quel posto sembra concentrarsi come in una sorta di riserva dell’identità locale. E lì, dove si parla solo in dialetto, sembra, non solo a noi, di ritrovare “l’eco del tempo che fu”, la Termoli popolare di una volta.
 
Nonostante la selezione amicale, l’ambiente è aperto a chiunque. Così scopri che qualche volta in quella casa sono stati visti a cena l’assessore regionale Vitagliano e l’on.le Giovanni Di Stasi. – Una volta invitammo ad entrare anche l’ex segretario del PCI Achille Occhetto che stava passeggiando per il Borgo – ci dice Antonio Di Cesare. Spesso – aggiunge – trovi qui studenti universitari, anche ragazze, che vogliono conoscere questo ambiente e ciò che vi si trova”.
 
E infatti in entrambe le stanze che formano l’abitazione v’è di tutto: dalle foto d’epoca della città a un modellino di rete per la pesca a strascico, nasse, nodi marinareschi, un giogo per cavalli, setacci, accette, campanacci, falci, roncole, cucchiai di legno, ferri da stiro a carbone, padelle di ferro e in alluminio di una volta, chitarra per fare la pasta, boccali di ceramica. E poi gagliardetti sportivi e di città regalati da occasionali visitatori, disegni, quadri a olio ed anche una targa, omaggio dei nipoti al padrone di casa sulla quale è inciso: “A Ghjiettone. Tra ulmi e padroni per i tuoi 60 anni di grandi “PELLONI”. Auguri dai tuoi nipoti Luigi, Pietro, Claudio, Antonio”.
 
Insomma, un locale mezzo museo della civiltà contadina e marinara e mezzo bazar, al Piano Cardone, nel centro storico di Termoli, un luogo tra i più cari alla memoria dei termolesi, situato tra piazzetta Mons. Bisceglie e Tornola, nel punto in cui via Federico II di Svevia, dopo la strettoia di Palazzo Tisi, s’allarga rivolta a nord-est. Una rarissima foto di fine ‘800 mostra questa parte della città poggiata su una superba scogliera piena di grotte, e che il mare accarezza. Un’immagine d’incomparabile bellezza, praticamente un sogno, dopo che la volontà degli amministratori dell’inizio del secolo scorso vi ha imposto un piccolo porto e quelli più recenti un maleodorante depuratore.
 
D’altra parte tutto il Borgo è cambiato: rispetto alle migliaia di abitanti di una volta attualmente si contano sì e no 400 residenti. Al posto delle piccole botteghe artigiane, negozietti di alimentari e cantine, vi sono pizzerie, pub, gelaterie, cornetterie, negozietti di souvenir. A proposito delle cantine: nel dopoguerra e fino a tutti gli anni cinquanta nel Borgo ne sopravvivevano due: quelle di Tonino Cannarsa, detto “Crocifisso”, all’imbocco di via Postierla, e quella di Pietruccio Cappella, soprannominato “A Ciavelétte”, nella parte stretta di via Duomo.
 
Una terza si trovava al belvedere alla Torretta, quindi all’ingresso del paese vecchio. Egisto Biffaroni, in precedenza assistente e guardiano della ditta triestina Maccarini-Rossignoli costruttrice del porto, poco prima dell’ultima guerra ne aprì un’altra, più moderna, quasi un bar. Ad esse, dopo San Martino (11 Novembre), s’aggiungevano, per un periodo limitato, quelle dei “pantanari”, cioè di coloro che avevano le vigne nella zona di Pantano Basso dalle quali si ricavava in abbondanza un vinello aspro chiamato “acquäte” o “cetégne de Pantäne”.
 
Queste mescite domestiche si riconoscevano per via di un rametto d’albero fronzuto (alloro o altro) posto in alto sullo stipite esterno della casa e chiamato “a frasche”. Dentro, un tavolino, un paio di sedie e un vassoio con alcuni bicchieri da riempire a richiesta. Una rapida bevuta e via. Il tutto all’insegna della genuinità e del risparmio.
Poco alla volta sia le cantine tradizionali che i cosiddetti “vendivino” del Borgo vecchio sono spariti del tutto. Di loro resta oggi solo il simpatico ricordo.

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